Provare a valutare sull’esito della 17° Conferenza delle Parti sui
Mutamenti Climatici da poco conclusa a Durban, è esercizio difficile o
forse scontato. Da tre anni all’indomani delle varie COP, da quella
di Copenhagen, (luogo del clamoroso flop che ha fatto scricchiolare
paurosamente l’impianto multilaterale del negoziato) a quella di
Cancun (nella quale si optò per la strategia dei “building blocks” ,
o dei piccoli passi) i pareri si dividono. Chi accusa il modello
multilaterale di dare eccessivo spazio agli interessi degli
inquinatori, o troppa voce a paesi insignificanti in una visione di
politica di potenza, chi accoglie come evento di portata storica un
impegno ancora sulla carta per un accordo internazionale legalmente
vincolante, chi si accontenta di aver mantenuto il protocollo di Kyoto
in terapia intensiva. Insomma si aggrava una già grande divaricazione
tra realtà e volontà politica. Una realtà che richiede misure urgenti,
mettendo a nudo l’inadeguatezza delle cifre sulle quali si costruirà
l’impianto futuro di governo delle politiche climatiche. Oggi parlare
di contenere un aumento di temperatura a 2 gradi o di 1,5 significa
negoziare la sopravvivenza di interi paesi, e decine di migliaia di
potenziali rifugiati ambientali. Eppoi c’è l’altra realtà, quella del
modello stesso di negoziato, improntato sull “hard power”, sulla
trattativa fatta di confronti diretti, di bracci di ferro, di
“brinkmanship” come da gergo diplomatico, ovvero di passeggiate
rischiosissime sul filo del rasoio per riuscire a strappare una
mediazione al ribasso. Ci sono governi che in nome dell’equità
chiedono un impegno di riduzione delle emissioni per tutti eccetto che
per loro, e poi , come nel caso dell’India dimenticano opportunamente
l’equità quando si tratta di politiche energetiche nazionali. O chi ,
USA, Canada, Russia, Giappone, cerca di affossare del tutto il
Protocollo di Kyoto per un modello di gestione delle emissioni si base
volontaria e senza alcun possibile sistema sanzionatorio. C’è poi chi,
in nome dei paesi più poveri o dei diritti della Pachamama, fa appelli
al riconoscimento del debito ecologico, e poi continua a far dipendere
tutta la sua economia dallo sfruttamento di petrolio ed affini.
Insomma, tra miopia nella capacità di lettura dei costi umani ed
ecologici dei mutamenti climatici, e tatticismi o riposizionamenti
strategici di paesi o blocchi di paesi, il negoziato sul clima rischia
di perpetuare una profonda inadeguatezza, se non addirittura di
trasformarsi in una palude nella quale resta invischiata qualsiasi
ipotesi alternativa. Sia ben chiaro, oggi il problema non è quello di
abbandonare il modello multilaterale, semmai quello di sforzarsi per
renderlo più aperto, per farne uno spazio comune di elaborazione e
proposta politica e programmatica per la cura dei “commons”
atmosferici. La UNFCCC oggi questo non è. Restano fuori dalla
trattativa e dalla partecipazione attiva soggetti non statuali ,
movimenti, realtà di base, la società civile, gli enti locali e le
amministrazioni virtuose, le piccole imprese e cooperative che oggi
lottano per difendere una nicchia di mercato, quella delle rinnovabili
su piccola scala, dal dominio di poche multinazionali. A loro viene
solo concesso il ruolo di “lobby” o di partecipazione ad eventi
paralleli, o esposizioni sull’innovazione tecnologica, senza che dalle
buone pratiche si possa distillare un congiunto di regole ed impegni
per una trasformazione radicale del modello di sviluppo. Il primo
punto sul quale riflettere nel dopo Durban è che oggi quel sistema di
negoziato non rispecchia la trasformazione che è avvenuta nelle
relazioni internazionali, nelle quali si sono andati affermando nuovi
soggetti ed attori che rivendicano giustamente pari dignità nel
governo del mondo. Anzi, la prassi di negoziati a porte chiuse, nei
quali rappresentanti dei vari governi hanno combattuto fino allo
stremo per difendere i propri interessi nazionali, a Durban
addirittura sforando nei tempi supplementari, è continuata, mentre
alla possibilità di accrescere il ruolo dei cosiddetti “stakeholders”
è stato dedicato un misero workshop. Ad eccezione del cosiddetto
settore privato, al quale vengono riconosciuti ruoli di tutto rilievo,
intendendo però come settore privato quello delle grandi lobby
energetiche non certo quello delle cooperative, piccole e medie
imprese, realtà comunitarie o su piccola scala dedite all’innovazione.
Insomma, finché l’UNFCCC resta un’arena di “wrestling” tra paesi e
blocchi di paesi nella quale si riconfigurano o disegnano nuovi
assetti anche geopolitici, non si riuscirà ad uscire dall’impasse.
Così anche quella che oggi viene letta da alcuni come una grande
vittoria, ovvero l’ impegno per concludere un accordo internazionale
vincolante entro il 2015, (un “coup de theatre” annunciato,
dell’Unione Europea che è riuscita in un colpo a farsi portavoce dei
paesi più poveri e di quelli insulari e coinvolgere la Cina – magra
consolazione per chi chiede un protagonismo maggiore dell’Europa sui
temi globali) rischia di perpetuare uno scontro che poco ha a che
vedere con il futuro del pianeta e molto di più con il posizionamento
strategico o il puro e semplice interesse nazionale nella sua
accezione più miope. Eppure, qualche giorno fa il Social Europe
Journal, sottolineava come da una parte i governi hanno rinunciato
alla loro sovranità nazionale a favore dei mercati finanziari, ed a
Standards’ & Poore mentre dall’altra non ne vogliono sapere di cedere
sovranità sul tema della riduzione delle emissioni. Eppoi il paradosso
è che se per la crisi finanziaria i governi hanno accettato di agire
di concerto (seppur proponendo le ricette sbagliate) per quanto
riguarda il clima pospongono in continuazione ogni forma di accordo.
Ecco l’ennesima contraddizione della quale il processo del negoziato
climatico è profondamente intriso. Per tornare al risultato di Durban,
secondo la strategia dei “building block” dalla COP17 esce un abbozzo
di architettura istituzionale, dal Comitato per l’Adattamento, alla
creazione del Fondo Verde per il Clima, alla segreteria per il
trasferimento di tecnologia , all’accordo su modalità di informazione
e rendicontazione dei programmi di mitigazione e del loro
finanziamento, ad un quantomeno vago mandato per continuare nello
sviluppo e messa in atto di programmi per la tutela delle foreste.
Resta in rianimazione il protocollo di Kyoto, il cui secondo periodo
di impegno viene sussunto – come in una matrioska russa – nel quadro
di un “pacchetto” che prevede la negoziazione di un accordo globale
vincolate per la riduzione delle emissioni entro il 2015 e che verrà
negoziato in un gruppo di lavoro ad hoc sulla Piattaforma di Durban
per l’azione rafforzata. Kyoto resta un Giano bifronte: da una parte
guarda indietro, proponendo misure di mercato quali il commercio di
permessi di emissione, soluzioni false all’emergenza climatica e
dall’altra guarda in avanti, fornendo la base sulla quale provare a
costruire un sistema globale di verifica e sanzioni per chi non
ottempera agli impegni di riduzione. Le prospettive generali per il
negoziato non sono incoraggianti. I governi si riuniranno di nuovo a
maggio a Bonn per poi convergere tutti nella kermesse di Rio+20 dove
il rischio di un assalto alla diligenza dei fondi climatici da parte
della Banca mondiale è elevatissimo, come grande è la preoccupazione
per un ulteriore spinta alla finanziarizzazione delle tematiche
ambientali globali in nome di una non meglio definita “Green Economy”.
E poi la prossima COP 18 sarà a Doha, in Qatar, cuore dell’impero
petrolifero. Che fare allora? Aspettare il 2020 anno nel quale i nuovi
possibili accordi diventeranno operativi, o azzardarsi ad
implementare gli impegni di riduzione senza aspettare la loro ratifica
dalla comunità internazionale? Se guardiamo a casa nostra, oggi, due
possono essere le possibili strategie. Da una parte una moratoria
all’espansione della frontiera petrolifera nel nostro paese,
sostenendo le comunità e le amministrazioni locali, dall’Abruzzo, alla
Basilicata alla Puglia che resistono alle trivellazioni. E dall’altra
insistere nella costruzione di un blocco “sociale” tra movimenti per
la giustizia climatica, associazionismo, amministrazioni locali
virtuose, comunità che soffrono gli effetti dei cambiamenti climatici,
sindacato, settori imprenditoriali “virtuosi” , settore finanziario
“alternativo”. E non aspettare fino al 2020 che i governi decidano per
il futuro del Pianeta ma praticarlo fin d’ora.
Care e cari,
dopo i vari resoconti, riflessioni e bilanci che molti di voi (Marica,
Giuseppe, Alberto, Monica, Elena, Francesco, ecc.) hanno fatto circolare su
Durban, e sull’inadeguatezza di vertici di questo tipo per affrontare
concretamente la crisi ambientale e climatica, ….mi viene da pensare come,
al di là della sacrosanta denuncia, l’iniziativa dei movimenti potrebbe
essere più efficace.
Stiamo parlando di questioni “pesanti” da cambiare, per le quali non bastano
solo le dichiarazioni di principio. Un cambio dei modelli di sviluppo a
livello globale, trasformazioni profonde, dei sistemi produttivi,
energetici, dei trasporti, dei consumi, hanno bisogno di politiche globali,
ma anche interventi nazionali coerenti, articolati per ogni settore, quindi
con un iniziative dall’alto, ma anche dal basso.
Come mettere in moto e generalizzare questi cambiamenti? La domanda circa
l’adeguatezza della nostra iniziativa vale per tutti, e per quanto ci
riguarda, per l’iniziativa dei movimenti sindacali dei vari paesi, non
sempre coerente e conseguente, e pure per noi come Fiom e per le scelte che
tentiamo faticosamente di mettere in campo.
Da un po’ di tempo abbiamo avviato una riflessione sulla qualità dello
sviluppo, l’abbiamo ripresa anche nella nostra piattaforma per la
riconquista del Contratto nazionale, dove abbiamo posto la necessità di:
“una nuova politica industriale rivolta anche alla qualificazione e crescita
del sistema di piccole e medie imprese…per l’affermazione di un nuovo
modello di sviluppo ambientalmente e socialmente sostenibile…un nuovo
intervento pubblico nell’economia, anche per valorizzare i beni comuni…
Prevedendo diritti di informazione e confronto preventivo, fin dalla fase di
ideazione in materia di politiche industriali …diritto di proposta… progetti
finalizzati a piani di risparmio, efficienza e uso razionale di tutte le
risorse e fonti energetiche, per una maggior sostenibilità ambientale nei
cicli produttivi e nell’intero ciclo di vita dei prodotti”.
Al di là da quando si potrà aprire un confronto nazionale su questa
piattaforma, la Fiom ha deciso di praticare questi contenuti quale azione
rivendicativa in tutti i luoghi di lavoro.
Questo significa che dobbiamo cominciare a declinare questa impostazione in
ogni settore. Infatti per noi parlare di un altro modello di sviluppo, non è
solo immaginare di sviluppare i settori della cosiddetta “green economy”,
naturalmente importanti, ma intervenire per una riconversione ecologia della
produzione e dei consumi, e quindi intervenire su tutti i settori, anche su
quelli della “hard economy”, come la siderurgia, la mobilità, la logistica,
la grande produzione energetica, ecc., rendendoli il più possibile
compatibili e sostenibili, verso una economia a basse emissioni di carbonio.
In tutto questo ci troviamo ad affrontare anche questioni settoriali di non
facile soluzione. Per fare solo un esempio: naturalmente non abbiamo dubbi
nell’essere contrari alla mercificazione dell’ambiente, ma nel momento che
il sistema europeo delle quote di carbonio (ETS) viene messo in discussione
al ribasso dalle lobby dei produttori siderurgici e energetici, siamo
costretti (anche con qualche fatica con alcuni sindacati di qualche paese)
almeno a fare muro su quei vincoli, ma poi la battaglia per la riduzione
delle emissioni e per l’efficienza energetica deve essere portata avanti con
la trasformazione degli impianti tecnologici…
Su tutte queste questioni credo che sarebbe necessario un più approfondito
confronto tra movimenti per la giustizia sociale e per quella ambientale,
per tentare di mettere in campo qualche esperienza più pregnante, oltre le
dichiarazioni di principio e il semplice sostegno a qualche buona pratica
(naturalmente importanti entrambe).
Se c’è quest’interesse, si potrebbe trovare una occasione che coinvolga
tutti, per approfondire le valutazioni su Durban e le prospettive, e
continuare la riflessione avviata lo scorso anno a Bologna con l’iniziativa
“Il clima delle fabbriche”.
Vittorio Bardi
12 thoughts on “Alcune riflessioni su Durban”