Carla e Carlo, musica d’amore e d’anarchia

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Prendo a prestito il titolo di un film di Lina Wertmüller (Film d’amore e d’anarchia – Ovvero “Stamattina alle 10 in via dei Fiori nella nota casa di tolleranza…” del 1973) perché è la sintesi giusta tra due dischi usciti da qualche giorno e che difficilmente troverete negli scaffali della grande distribuzione. Ve li dovete andare a cercare, come si faceva prima dell’avvento del web. E se li trovate, fate un piacere alla musica e a voi stessi.

Si tratta della sassofonista jazz Carla Marciano e del songster Carlo Ghirardato. La prima rende omaggio alla musica di Bernard Herrmann il secondo a quei canti dimenticati che appartengono al repertorio di canzoni contro la guerra. Due dischi che riattualizzano, ognuno a modo suo, un patrimonio musicale prezioso. Due dischi suonati benissimo, da musicisti che non “prendono in giro” l’ascoltatore. E anche lì dove possono sembrare ostici, non siate frettolosi. La musica ha bisogno del giusto tempo per sedimentarsi dentro di noi e cancellare gli orrori della produzione di massa.

 

CARLA MARCIANO QUARTET “PSYCHOSIS”

Detto questo partiamo da Carla Marciano. Il suo è un omaggio alla musica di Bernard Herrmann, ma è soprattutto un omaggio a quei thriller psicologici che registi come Hitchcock, Scorsese, Boulting hanno saputo rappresentare sul grande schermo infondendo nello spettatore quella dose di inquietudine e bellezza filmica che ha fatto scuola.

Nel nuovo disco, la Marciano usa a pretesto le melodie di “Marnie”, “Psycho”, “Vertigo”, “Taxi Driver”, “Twisted Nerve” e senza alterarne l’estetica melodica, piega la materia sonora alla potenza del suo quartetto. Che ne reinventa l’esposizione attraverso l’improvvisazione, che penetra fino in fondo il significante della scrittura di Herrmann.

Così, a far girare questo cd nel lettore, si ha la netta percezione che la musica scelta non sia affatto distante dalla cifra stilistica della sassofonista, tanto da sembrare – ascoltando i capitoli precedenti della discografia del quartetto – un disco interamente composto dalla Marciano. E per certi aspetti, lo è.

Il sassofono suona nella maniera più free possibile mantenendo una tensione emotiva elevata che in alcuni punti grida con la stessa agghiacciante paura di Janet Leigh nella doccia di Psycho. Il sopranino ha le stesse vertigini coltraniane e in “Twisted Nerve” sfiora l’intensità emotiva di “My Favorite Things”. Un interplay consolidato, con una ritmica pulsante che batte con lo stesso battito cardiaco al cardiopalma che accompagna lo spettatore durante la visione dei film.

Un disco originale, non scontato, che non si limita alla mera esposizione del tema ma ne affronta appunto la sua emotività, consegnando all’ascoltatore la giusta dose di “psicosi” in un alterato equilibrio tra jazz – mainstream – e paura che non ci lascia affatto indifferenti.

 

CARLO GHIRARDATO “CANZONI TRA GUERRA E PACE”

Si apre con i primi quattro versi di Mother, brano emblematico di The Wall.

Quattro domande alla madre ossessiva di Pink che nel nuovo disco di Carlo Ghirardato diventano pretesto perinterrogarsi e interrogare.

Undici “Canzoni tra guerra e pace”, alcune delle quali spolverate da una memoria lontana – e mai sopita – rilette con arrangiamenti moderni e raffinati firmati a cinque mani da musicisti del calibro di Michele Ascolese, Mark Baldwin Harris, Cristiano Califano, Fabio Fraschini e naturalmente Ghirardato. Arrangiamenti che non tradiscono l’originalità melodica ma tracciano un solco nuovo in canzoni dal significante potente così da risvegliarle dal lungo torpore.

Mother apre il medley che Carlo chiude con La Collina di De Andrè, tanto per non lasciare fuori dal suo progetto discografico quel Faber a cui deve molto.

Ed è proprio in quel mood, a metà strada tra il songster americano e la canzone d’autore italiana, che la voce baritonale di Carlo Ghirardato squarcia il ritmo dei tempi moderni con un lavoro discografico che ha, in antiche ballate, la forza della novità. Come un menestrello che porge il suo canto ai signori dell’attualismo musicale con una prosa che arriva da lontano ma con i piedi piantati nel presente.

E così si passa dal Calvino di “Dove vola l’avvoltoio” (con la chitarra di Ascolese in un abile manouche e il testo originale che perde due strofe per renderlo più forte) al “disertore” di Boris Vian fino alle parole romantiche del poeta turco/polacco Hikmet di “I Come And Stay At Every Door” per approdare all’Istria di Sergio Endrigo (“1947”) e alla potenza dell’argentino Leon Gieco con “Solo le Pido a Dios” inno riscoperto dopo la guerra delle Falkland. Dentro c’è anche quella “O Gorizia tu sei maledetta” della tradizione anarchica e antimilitarista alla quale si aggiunge una strofa sui “ragazzi del ‘99” ricordo dei diciottenni mandati a morire nel 1917 ma anche un urlo ai ventenni di oggi, la maggior parte dei quali non ha memoria di certa storia, sofferenza, disperazione. E poi due song del repertorio napoletano (“O’ sudato ‘nnammurato” e “Reginella”), che non ti aspetti da un musicista nato a Kassel, in Germania, cresciuto a Bologna e romano d’adozione e soprattutto figlio della new wave anni Ottanta. Il disco si chiude con “Lili Marleen” e la sua voce, dopo l’inglese, il francese, il napoletano ritorna al tedesco fanciullo. Un disco circolare, globale, politico, necessario, che dopo tanto sbandare è appena giusto che la fortuna lo aiuti.

 

Carlo Pecoraro

musumeci

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