Un buco nero come il petrolio

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Se non ora quando? Se non noi, chi? Se non qua, dove?” Con queste parole si rivolge alla platea,Yeb Samo, il negoziatore capo delle Filippine, paese in queste ore colpito da un tifone che sta seminando distruzione e morte, Sono ormai giorni che il negoziato sul clima, in corso a Doha si è avvitato in un’impasse. Forse stanno venendo al pettine le fragilità del compromesso raggiunto lo scorso anno a Durban, ovvero di diluire l’impegno-chiave dell’accordo globale sulle riduzioni di emissioni, in un nuovo processo negoziale, (la Piattaforma di Durban), e sussumere all’interno di quest’ipotesi di accordo globale il secondo periodo di applicazione del protocollo di Kyoto.

I numeri però parlano chiaro: oggi, a 24 giorni dalla scadenza del primo periodo di Kyoto ancora non c’è accordo su come continuare. Oggi, con le decine di morti causate dal tifone Bopha, i governi non riescono ad accordarsi su come colmare quel “gigaton gap” di 6-15 gigaton di emissioni che marcano l’inadeguatezza degli attuali impegni di riduzione. O quello che gli esperti navigati di negoziati climatici denominano “ambition deficit”, ossia il differenziale che passa tra la percentuale attuale delle riduzioni di emissioni: 11-16% attuali rispetto a quelle necessarie entro il 2020, ovvero il 25-40% sui livelli di emissione del 1990.

Eppoi le cifre degli impegni finanziari: l’accordo a Copenhagen si era chiuso su un impegno globale di finanziamento per politiche e programmi climatici pari a 30 miliardi di dollari di “finanziamento iniziale” per poi arrivare a un volume di 100 miliardi di dollari l’anno fino al 2020. Dei 30 miliardi di dollari finora se ne sono visti pochi, spesso fondi riciclati da quelli della lotta alla povertà. Ed il Fondo Verde per il Clima, struttura dedicata alla gestione e concessione dei finanziamenti finora fatica a raggranellare i fondi necessari per essere pienamente operativa.

Insomma, mai come quest’anno, il tema del clima si trasforma in una tragica pedina di scambio su scacchiere che poco o nulla hanno a che vedere con l’oggetto del contendere. Non può essere altrimenti se il quadro di riferimento resta quello del modello di crescita e liberalizzazione spinta con una crisi economico-finanziaria che continua a incombere non solo sui paesi di quello che a suo tempo si definiva “nord” del mondo, ma inizia ad avere effetto anche su Cina, Brasile ed altri paesi in rapida industrializzazione, contraendone le capacità produttive e di crescita.

Tutto il negoziato, quello dei governi, si compone e scompone continuamente in mille rivoli, tavoli informali, gruppi di lavoro, sessioni parallele, cosa che rende impossibile ogni forma di monitoraggio e partecipazione effettiva dei non-addetti. Parole chiave come equità, giustizia climatica, responsabilità comuni e differenziate si dissolvono un una zona grigia, virtuale, un buco nero definito dai gap di ambizione, quelli degli impegni finanziari, i gap di responsabilità e quelli di democrazia. Un negoziato sempre più a porte chiuse, dove la decisione di portare a zero l’uso di carta per salvare (si dice 150 alberi circa, che sarà mai in un paese come il Qatar con il più alto livello di emissioni procapite, e la benzina a 25 centesimi di euro ogni 4 litri) rende assai arduo lavorare su proposte di testi alternativi, e diffondere le proprie proposte ai delegati ed alla stampa.

In quel buco nero, vischioso come una pozza di petrolio che inghiotte ogni possibile aspettativa, i delegati continuano a rincorrersi, tra appelli drammatici, parole dure, bracci di ferro, offerte dell’ultim’ora.

Il quadro che ne risulta è desolante, ma da Doha non ci si aspettava un granché. Fin dall’inizio era chiaro che solo a ridosso della data del 2015 (entro la quale andrà concluso un accordo globale sulla riduzione delle emissioni che entrerà in vigore – si badi bene – solo nel 2020) si potranno delineare i contorni di un possibile accordo. A Doha la posta in gioco è altra: come chiudere i due processi negoziali, quello relativo al protocollo di Kyoto e quello del gruppo di lavoro sugli impegni di lungo termine che finora ha dibattuto di questioni quali visione di lungo periodo, adattamento, mitigazione, foreste, trasferimenti di tecnologie, strumenti di attuazione.

Da una parte i paesi “ricchi”, che vorrebbero eludere nuovi impegni su questi temi, cercando di chiudere alla svelta il negoziato e passare oltre, affermando che tutti quei temi o sono stati già affrontati o lo saranno in commissioni e comitati costituiti all’uopo. Dall’altra i paesi in via di sviluppo – definizione ormai vecchia perché non aiuta a differenziare tra paesi quali Brasile, Cina, Sudafrica, India, paesi poveri e paesi insulari, ognuno con le proprie urgenze e specificità. Già perchè a seconda di come lo leggi questo negoziato sul clima, con le sue “sottotracce”, da quella commerciale a quella scientifica a quella “politica”, a quella della sopravvivenza, a quella del debito ecologico, a quella dei diritti umani, la geografia di chi vince e chi perde, o forse la mappa geopolitica, cambia.

C’è un blocco di paesi che chiede impegni chiari su finanziamenti, trasferimenti di tecnologie, conferma del secondo periodo di attuazione del protocollo di Kyoto.

Ci sono paesi poveri che sperano di accedere a fondi che possano essere complementari rispetto a quelli sempre più scarsi per la lotta alla povertà.

Lo sanno bene gli africani, che tra una decina d’anni si troveranno di fronte a un tremendo “crunch”: La maggior parte dei fondi pubblici si concentreranno sulle politiche climatiche e di questi la stragrande maggioranza in Asia e America Latina, dove si devono rafforzare i programi di “mitigazione” delle emissioni, mentre l’Africa rischia di restare a bocca asciutta.

Eppoi il protocollo di Kyoto ormai in stato comatoso, che dovrebbe essere ratificato per il secondo periodo,sul quale si prospetta un accordo di compromesso: sulla carta si partirà dal 1 gennaio 2012, ma la realtà sembra consegnarci una “imago sine re, “ un’immagine senza sostanza . E resta il rischio di ricorrere a false soluzioni quali i meccanismi di mercato.

Questioni non da poco, giacché a seconda dell’esito di questi due negoziati, quello su Kyoto e quello sulla cooperazione di lungo periodo, si definiranno direttamente o per “default”, l’ agenda e la roadmap della piattaforma di Durban. Questo pare essere l’unico negoziato che procede con relativa tranquillità, visto che il tempo delle decisioni vere è ancora lontano. Insomma, a meno di due giorni dalla fine della Conferenza delle Parti numero 18 si assiste ad un copione già visto, che lascia poco sperare per l’anno che viene. Un 2013 che si concluderà con l’ennesima conferenza delle Parti, la numero 19, stavolta non nel paese degli sceicchi ma in quello del carbone, la Polonia. acerrimo nemico del Protocollo di Kyoto.

Nel frattempo per tenere ancora vive le speranze, il Segretario Generale delle Nazioni Unite annuncia una Conferenza d’alto livello di Ministri per continuare a discutere sulle questioni climatiche e sperare che la notte porti miglior consiglio. Nel frattempo le enormi sale e corridoi del centro congressi del Qatar National Convention Center (QNCC), si svuotano in attesa dell’ultimo giorno di trattative all’ultimo sangue. Resta un ‘enorme ragno di acciaio, animale sacro qua in Qatar, visto che è l’unico che resiste al deserto. E’ “Maman” opera scultorea della grande artista contemporanea Louise Bourgeois, che sta a simboleggiare il rinnovamento continuo dei cicli della vita. Un’esortazione per il futuro.

crazyhorse

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