Rete Reclaimers Caserta

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Da diversi mesi un gruppo di associazioni e di singoli cittadini, coalizzati
nella Rete Reclaimers, ha iniziato a proporre una serie di iniziative in città
intorno al tema dei “beni comuni”. Si sa, quello dei “beni comuni” è un tema
scivoloso, perché rischia sempre di ridursi al problema dell’elenco di quei beni,
cosiddetti naturali, che per il loro fondamentale ruolo di beni primari o di
sopravvivenza (aria, acqua, terra, ecc…) dovrebbero essere esclusi da una
gestione privatistica. Al di là di questa visione “ecologica” dei beni comuni,
certamente importantissima, la Rete Reclaimers è partita invece da un approccio
diverso: per noi, la città stessa è un prodotto dell’attività comune degli uomini
e delle donne, senza la quale l’idea stessa di un “vivere insieme” sarebbe
impensabile. Una città è l’insieme dei luoghi (piazze, strade, edifici,
progettazione urbana, ecc..), dei servizi (non solo l’acqua, ma i trasporti, le
mense scolastiche, i circuiti aggregativi e di socialità, la cultura, il welfare,
ecc..),  dell’intelligenza collettiva (il cd. genius loci, lo “spirito del
luogo”) che ogni giorno rende possibile la vita collettiva. Tutto questo è ciò
che definiamo “comune”. Questo “comune”, serbatoio inesauribile di ricchezza, è
oggi sotto attacco della speculazione e della privatizzazione.

Il sistema economico-finanziario che è entrato in crisi negli ultimi anni si
regge, né più né meno, sull’appropriazione privata di ciò che è “comune”, della
ricchezza comune delle città. Negli anni trascorsi, ad esempio, la nostra città è
stata oggetto di un processo senza fine di privatizzazione della nostra vita in
comune. Si sono privatizzate le piazze, i servizi sociali e i teatri (o, più in
generale, la cultura e i saperi). Si sono svenduti immobili e spazi pubblici al
peggior offerente. Si sono privatizzati terreni per costruire palazzi su palazzi.
Il tessuto produttivo della città è stato ridotto all’offerta di servizi
commerciali. Tutto questo è all’origine della crisi che ha portato al dissesto
finanziario. La stessa cosa che è accaduta, mutatis mutandis, a livello
internazionale con la “crisi del debito”. Il debito, così come il dissesto
finanziario per la nostra città, ha funzionato come una specie di calamità
naturale, una sorta di shock grazie al quale si possono imporre misure di
“risanamento” emergenziali che consentono di far passare politiche di austerità e
di tagli che altrimenti sarebbe difficile imporre in condizioni normali.
L’argomentazione che sorregge questo discorso favorevole alle privatizzazioni a
tutti i costi si fonda sul presupposto inequivocabile che una istituzione
pubblica debba far quadrare i conti né più e né meno di una qualsiasi azienda. Se
non ci sono soldi da spendere, infatti, il privato sembra diventare l’unica
soluzione disponibile per gestire piazze, servizi sociali e culturali, immobili,
per creare posti di lavoro. Ma se i servizi vengono privatizzati, gli spazi
pubblici svenduti, i teatri comunali affittati per pochi euro all’anno, da dove
dovrebbe derivare la ricchezza che serve ad alimentare il circuito della vita
pubblica? Ed ecco allora che i costi della privatizzazione vengono fatti ricadere
sui cittadini (lavoratori, studenti, precari, migranti, disoccupati, ecc…): si
aumentano le tasse e il prezzo da pagare per avere dei servizi. Ed ecco che la
città diventa una grande impresa e il Sindaco (con tutta la giunta e il consiglio
comunale) una specie di Marchionne. A tal proposito, la vicenda del servizio di
trasporto pubblico locale (ACMS) risulta emblematica: la crisi debitoria
dell’azienda che ne ha provocato il fallimento – una crisi prodotta dalla stessa
gestione clientelare degli amministratori locali – serve a giustificarne la
privatizzazione, a scapito dei posti di lavoro e della qualità di un servizio
fondamentale per la vita urbana. Nulla di più della vicenda dell’ACMS ci illustra
cosa voglia dire, oggi, una politica fondata sulla riappropriazione dei beni
comuni: cosa c’è di più “comune” della gestione di un servizio come quello del
trasporto locale? Esso coinvolge i lavoratori del settore non meno degli utenti
del servizio, il cittadino che deve recarsi a lavoro e lo studente che deve
raggiungere la propria scuola non meno dell’autista e del tecnico della
manutenzione, creando una comunità di interessi condivisi, indispensabili per il
vivere insieme. Siamo forse troppo abituati all’uso del trasporto privato
individualizzante (come l’auto) per renderci conto di quanta “vita in comune” vi
sia implicita nella gestione di un servizio pubblico come quello del trasporto?

Ecco cosa la Rete Reclaimers intende per “beni comuni”: una lotta civile per
l’emersione di una consapevolezza collettiva di quanta nostra vita si svolga in
comune e per la difesa di questo “comune” dai tentativi di espropriazione e di
speculazione ad opera dei privati. Su questo punto, è bene essere chiari: i
privati che oggi si accaparrano le ricchezze di una città in dismissione non sono
generatori di ricchezza, ma di rendita. Gestire una piazza, un parco o un
servizio pubblico (sociale o culturale) non significa generare ricchezza, ma
approfittare della ricchezza comune già esistente per rimpinguare le proprie
tasche attraverso posizioni monopolistiche camuffate da misure di liberalizzazione.

Di fronte a questa situazione, non si può rimanere fermi. Non si tratta di
strappare le briciole ad un tavolo di trattativa: l’agnello non si è mai seduto a
tavola col lupo! Si tratta, al contrario, di rovesciare il tavolo! Di iniziare un
processo di innovazione che porti la parte attiva della città ad immaginare un
nuovo modo di praticare l’azione politica. I partiti istituzionali, così come in
generale la rappresentanza, non sono più in grado di garantire la difesa del
“comune” dall’appropriazione privata. Da destra e da sinistra, le politiche che
ci vengono proposte sono più o meno le stesse. E’ consapevolezza diffusa che oggi
un’inversione di rotta può darsi solo in una prospettiva che viaggi al di fuori
dei partiti. Una prospettiva che si ponga il compito urgente di sviluppare un
movimento cittadino che, dal basso, si ponga come obiettivo non il “rinnovamento
della classe dirigente”, ma la pratica di una democrazia del “comune”, in cui le
decisioni e il governo della città passino attraverso i cittadini. Qui non si
tratta di partecipazione. Non si tratta di essere “consultati” per meglio essere
incanalati nei circuiti del consenso. Si tratta di sviluppare conflitto e di
costruire una nuova idea di società. Pensiamo che oggi l’azione politica, ovvero
le nuove forme della militanza politica, non si manifestino nell’iscriversi ad un
partito o nella politica istituzionale classica, ma in quel fare comune che tenta
di coniugare la resistenza attiva contro le politiche di privatizzazione e
l’immaginazione di nuove forme di gestione del pubblico (dai parchi ai servizi,
dagli spazi pubblici alle attività produttive). Forme di gestione che tutelino
lavoratori e utenti in una prospettiva comune e in cui il lavoro non sia fonte di
schiavitù, ma attività libera di cooperazione.

Pensiamo che i tempi siano maturi per avviare una discussione pubblica su questi
temi, che ci consenta di immaginare coalizioni sociali alternative alle politiche
speculative imposte negli ultimi anni da destra e sinistra. Per questo motivo
invitiamo i cittadini, le associazioni, i movimenti, i comitati di rione, i
lavoratori in lotta all’assemblea pubblica che si terrà il giorno 4 Maggio alle
ore 18 presso il Teatro Civico 14.

Rete Reclaimers

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