Incontro 29 marzo

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29 MARZO – INCONTRO CON IL DOTT. MAURO MOCCI
SUL TEMA:
NO FOOD-BIOMASSE: BONIFICA O BIOFREGATURA?

INTRODUZIONE A CURA DELLA RETE CAMPANA SALUTE E AMBIENTE
La soluzione delle istituzioni al dramma dell’avvelenamento dell’intero territorio campano, in particolare della tristemente nota Terra dei Fuochi, ed al persistente problema dei rifiuti è ancora una volta  all’insegna del gattopardesco cambiare tutto perché nulla cambi.
Il famigerato decreto sulla Terra dei fuochi, ormai legge, altro non è che la riproposizione della logica emergenziale che ha caratterizzato gli ultimi 20 anni e che è responsabile dell’attuale disastro. Ancora una volta commissari e nuove cabine di regia, ancora una volta militarizzazione dei territori, ancora una volta repressione solo verso l’anello più debole della catena mentre rimangono impuniti i veri responsabili del  traffico dei rifiuti tossici e non. Anche in questo caso in nome delle procedure di urgenza si giustificano le opportune deroghe, come nel caso del comma 4 Articolo. 2-bis con cui si dà il via libera al Comitato di coordinamento per l’alta sorveglianza delle grandi opere, ad indicare linee “anche in deroga a quanto previsto dal codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione”.
Non va meglio per quanto riguarda la mappatura dei terreni inquinati e la bonifica che, a dire del governo, troverebbero in questa legge il primo importante avvio. In realtà, per la prima come per la seconda, siamo di fronte ad un dispositivo insufficiente. La mappatura dei terreni prevista solo per una parte del territorio campano, quello  agricolo, e per di più di un’area già attenzionata da precedenti rilievi o la cui devastazione era già nota sia per le denunce dei comitati sia per le passate (ed opportunamente archiviate) dichiarazioni di pentiti di camorra e/o indagini della magistratura; i tempi ridicoli previsti per la caratterizzazione, la genericità delle indagini da compiersi su suolo e sottosuolo, hanno trovato lo sbocco più logico, viste le premesse, nei risultati presentati l’11 marzo dal governo. Dopo aver a bella posta dato il massimo rilievo mediatico alle “eclatanti” scoperte di interramenti di rifiuti tossici, alle operazioni di scavo, all’uso dei droni, si è lanciato il messaggio tranquillante, plasticamente raffigurato nella torta verde tenuta dalle mani di Caldoro, di un 98% di territorio sano contro il 2% – cioè 21,5 Km²- inquinato, di cui 9,2 Km² quello agricolo. I 51 siti a rischio alto (5-4-3) sarebbero addirittura soltanto 64 ettari. Peccato però, che dai calcoli siano escluse le aree agricole vicine agli impianti di smaltimento dei rifiuti o le cosiddette “aree vaste” già contaminate come “Lo Uttaro”, che siano escluse le aree al di sotto dei 1000 mq, che non siano contabilizzate le aree di stoccaggio delle ecoballe e delle discariche, che per quanto riguarda i roghi monitorati, sono state prese in considerazione soltanto quelle aree per cui si è reso necessario un intervento dei Vigili del fuoco superiore alle cinque ore tralasciando quelle interessate dai roghi piccoli e continui di rifiuti, pneumatici e vestiti che sono migliaia e che influiscono anche loro nella contaminazione dei terreni. Infatti, non si fa cenno ai 6.915 roghi censiti dal lavoro del Prefetto Donato Cafagna tra il gennaio 2012 e il dicembre 2013. In altre parole non sono inclusi la maggioranza di quei 2500 siti inquinati e/o potenzialmente inquinati già inseriti nel Piano Regionale per le bonifiche.
Quindi non solo quel 2% è un dato non realistico, ma il paradosso è che nemmeno quel 2% è frutto di una indagine seria quanto piuttosto dell’incrocio tra vecchi dati ed il monitoraggio aereo. A dirlo è la stessa tabella “Risultati di rischio”,  in cui a fianco ai siti si indicano le analisi da fare ed i tempi di attuazione. A ciò si aggiunga che nulla emerge per quanto riguarda lo stato delle acque, superficiali e non.
Tutta l’operazione è servita a dimostrare l’impegno e la rapida risposta dello Stato alle richieste dei cittadini. Una operazione di accreditamento e legittimazione delle istituzioni a cui hanno contribuito non pochi soggetti presenti il 16 novembre in piazza.
Ma, soprattutto, l’obiettivo è minimizzare il disastro e quindi le colpe di chi si è reso responsabile e complice di questo disastro: aziende del Nord, strutture commissariali, istituzioni e politici.
Il pericolo è che si faccia una identica operazione anche per quel che riguarda lo screening sanitario, di cui nella stessa legge si delinea solo il carattere di eccezionalità:  25 milioni per effettuare uno screening sanitario una tantum e solo per  una parte dei cittadini residenti in aree avvelenate con l’esclusione drammatica di Napoli e Caserta e cioè di cittadini avvelenati dalle discariche di Pianura o Chiaiano. Una vera presa in giro per una popolazione condannata  a morte dall’aumento esponenziale delle gravi patologie tumorali  e da un sistema sanitario reso sempre più inaccessibile dai tagli imposti alla sanità e dal costo sempre più alto per gli utenti. Che rischia, quindi, di trasformarsi nella ennesima constatazione, questa volta certificata, che le neoplasie hanno la loro causa in quegli stili di vita campani che più di un ministro ci ha rinfacciato.
Quanto alla bonifica siamo di fronte alla sola enunciazione.  I risibili stanziamenti (che non sono nemmeno nel provvedimento legislativo) – un  centinaio di milioni contro una stima di svariati miliardi di euro – sono la conferma che quella che si vuole avviare è una operazione  superficiale e di facciata.
Più che la bonifica la legge sancisce un pesante intervento sulle dinamiche ambientali  prevedendo un cambiamento di destinazione d’uso di parte dei  terreni a vocazione agricola con l’introduzione della coltivazione di piantagioni no food. Tutto questo, tra l’altro, senza individuare alcun tipo di sostegno al reddito per gli agricoltori incolpevoli costretti a rinunciare alla loro attività.
La giusta preoccupazione dei cittadini sulla qualità dei prodotti che arrivano sulle proprie tavole, la necessità di salvaguardare un comparto così importante e di pregio come l’agricoltura campana, vengono cinicamente piegate agli interessi delle lobbies di sempre.
Il no food, infatti,  presentato come la migliore e più sicura tecnica di bonifica, se da un lato altro non è che il risibile assorbimento di inquinanti in qualche decina di centimetri di terreno, dall’ altro ha il grandissimo ruolo di avviare ed alimentare negli anni a venire il lucroso affare delle biomasse.
La strumentalizzazione della paura e
della rabbia delle popolazioni, di fatto, sta permettendo alle istituzioni di concretizzare i progetti in tema di produzione di energia da biomasse e biogas in cantiere da anni ma mai decollati come necessario.
La Regione, infatti, in coerenza con le strategie delineate a livello comunitario e nazionale, ha posto in essere più di un provvedimento per: 1) incentivare gli impianti per la produzione di energia termica e/o elettrica alimentati da biomasse 2) favorire lo sviluppo di colture bioenergetiche e potenziare sia lo smaltimento e la  valorizzazione agro energetica degli scarti agro forestali, agroindustriali e del comparto zootecnico regionale sia lo smaltimento ed il recupero energetico dei rifiuti:
Piano di Azione per lo Sviluppo Economico Regionale (PASER 2006)
Delibera regionale 76 del 18 gennaio 2008 modificata (introduzione del no food)
Piano Territoriale regionale PTR Legge regionale n. 13 del 13 ottobre 2008
Piano Energetico Ambientale della Regione Campania (PEAR)  del  2009 (che, tra l’altro, introduce la semplificazione delle procedure amministrative per autorizzare gli impianti a biocombustibili gassosi fino a 3 MWt, gli impianti a biocombustibili solidi fino a 1 MWe e quelli a biocombustibili liquidi fino a 5 MWe)
Programma di Sviluppo Rurale 2007-2013 (PSR) 2010
Linee di indirizzo strategiche dell’Area Agricoltura per le Agroenergie ( marzo 2010)
Piano Forestale Generale 2009-2013 gennaio 2010
Soprattutto, proprio  l’Assessorato regionale all’Agricoltura, ha avviato più di un’attività di sperimentazione e ricerca sulla coltivazione e l’impiego di fonti agroenergetiche:
Progetto sulla Produzione di biomasse da energia in Irpinia a cura del  Dipartimento di Ingegneria Agraria ed Agronomia del Territorio – Università degli Studi di Napoli “Federico II”
Progetto interregionale RAMSES dal titolo “Risorse Agro-forestali-energetiche per il Mezzogiorno e lo Sviluppo Economico Sostenibile” in attuazione del PROBIO-Programma Nazionale Biocombustibili
Progetto relativo alla Produzione e stoccaggio di biomasse legnose derivanti da cedui a turno breve, a cura del Dipartimento di Arboricoltura, Botanica e Patologia vegetale. Università degli Studi di Napoli ”Federico II”
Progetto per lo Sviluppo di filiere agroenergetiche nella Regione Campania (2008-09), a cura del CRAA
Progetto Life Ecoremed  “ Sviluppo di protocolli eco-compatibili per la bonifica dei suoli inquinati nel SIN Litorale Domizio-Agro Aversano” a cura del CIRAM (Centro interdipartimentale di ricerca ambiente dell’Università Federico II
Ciò nonostante si è concretizzato ben poco; quello dell’energia da biomassa/biogas su larga scala, qui in Campania, non è riuscito finora a competere  con il più remunerativo, oleato  ed incentivato ciclo dei rifiuti, dallo smaltimento al recupero energetico.
Non si poteva, dunque, sprecare l’allarme e la rivendicazione di una necessaria bonifica per rimetterci mano e rilanciare quei progetti soprattutto alla luce della cresciuta remuneratività di questi impianti. A rendere oggi ancora più interessanti le colture bioenergetiche è stato in particolare il Decreto del Ministero dello Sviluppo Economico/ Ministero dell’ambiente, del 6 luglio 2012, che ha avviato una nuova fase di incentivi alla produzione di energia da fonti rinnovabili e assimilate, rendendo proprio gli impianti alimentati da biomasse, biogas, bioliquidi, frazione biodegradabile ed un ampio  spettro di rifiuti, la fonte di nuovi profitti, in Campania come altrove.
Gli impianti a biomasse già operanti in Campania (sia impianti bruciatori/inceneritori  o digestori in anaerobiosi di biomassa) e l’elevato numero di essi approvati o in via di autorizzazione,  saranno destinati a trattare la biomassa derivante dalla coltivazione di colture no food di ettari ed ettari di suolo, insieme alla combustione di insilati, oli, ecc. da importazione ed allo smaltimento di fanghi da depurazione, rifiuti industriali, pneumatici ed altre porcherie autorizzate dalla Tabella 6 A del decreto Clini.
Ad aprile 2013 la Campania si è aggiudicata 37,6 milioni di euro, per finanziare i progetti presentati da sette aziende della regione: Iavazzi Ambiente Campania (17,2 milioni di euro), Sarno Ecologia e Ambiente Campania (4,2 milioni), S. Agricola Santa Maria della Foce Campania (3,8 mln), Biocogein Campania (5,2 mln), Isola d’Agri Campania (1,3 mln), Imet Energia Campania (3,9 mln), Bio-Gas Cilentano Campania (1,7 mln). Non è dato sapere che potenza hanno questi impianti, ma di sicuro quello previsto a Calvi Risorta dalla Iavazzi è il più grande del Mezzogiorno.
A questi si aggiungono altri 14 impianti già autorizzati. Sono tutti di piccola dimensione (meno di 1MW) tranne quello, già partito, di Eboli che è di 5 MW. Ed altri 64 impianti sono in attesa di autorizzazione.
Inoltre ci sono gli impianti di compostaggio anaerobico di cui solo il comune di Napoli ne prevede 3.
Tutti, qua dentro, concordiamo sulla nocività degli impianti a biomasse.
I danni alla salute umana ed all’ambiente causati da questa tipologia di impianti sono provati da un’ampia mole di dati raccolti da una diffusa letteratura scientifica: emissioni inquinanti di particolato (PM di diverse dimensioni), ossidi di azoto (NOx), biossidi di zolfo (SO2), diossine/furani, gas acidi, metalli tossici come arsenico, cromo e mercurio oltre a ossido ci carbonio (CO) e CO2; impatti patologici sensibili a carico delle vie respiratorie, cuore, tiroide, neurotossicità , ecc..  Che aggiungerebbero i loro effetti a quelli dell’inceneritore, delle discariche, delle centrali a turbogas, ecc. già presenti sui nostri territori.
Non tutti concordiamo, invece, sulla tossicità e quindi sulla necessità di opporsi agli impianti di compostaggio anaerobico. Tanto è vero che i promotori della LIP li sostengono per smaltire la parte umida dei rifiuti urbani (art. 13 e 14). Per di più prevedendo anche loro (lo aveva fatto Clini eliminando addirittura la VIA) la semplificazione delle autorizzazioni per impianti di capacità inferiore alle 36000 t e potenza inferiore ad 1 MW. Francamente questa posizione ci sembra schizzofrenica. Come tutti sapete gli impianti a biomasse sono di tre tipi: 1) a biomasse solide (legno, cippato,ecc); 2) a biomasse liquide (oli vari come la Friel ad Acerra); 3) a biogas ottenuto da digestione anaerobica ( letame, rifiuti organici, insilati, mais soprattutto). Quindi o bruciano direttamente, caso delle prime due, o funzionano con i processi di fermentazione. Il compostaggio anaerobico è a tutti gli effetti una centrale a biomassa. Con in più i problemi connessi al trattamento del digestato che non è un compost di buona qualità.
E’ una favola, quella avvalorata dai promotori della LIP, che prevedendo l’immissione diretta del biogas nella rete si abbatterebbero le emissioni e che l’aggiunta di una fase di compostaggio aerobico del digestato eliminerebbe i problemi ad esso connessi, inclusi quelli relativi a microrganismi patogeni presenti. Primo, perché per purificare il gas c’è bisogno di energia e dell’apporto di altre sostanze a loro volta nocive, per il digestato vogliamo ricordare che la Regione Emilia ha vietato la costruzione di questi impianti nell’area del parmigiano reggiano per non compromettere la produzione ed il Piemonte ha fatto la stessa cosa nelle aree dei vigneti e delle risaie, suoi prodotti tipici. Ma su questo sentiremo il dott. Mocci.
Incoraggiare l’utilizzo per uso energetico dell’umido a valle della raccolta differenziata così come degli sfalci di potatura o dei reflui zootecnici invece di restituirli alla terra, quando i nostri terreni vanno desertificandosi perché poveri di sostanza organica, è criminale da chiunque venga la proposta. Quindi troviamo paradossale che proprio dalle nostre fila venga l’appoggio al recupero energetico da rifiuti. Ancora più paradossale è che lo si giustifichi con l’impossibilità di effettuare ovunque il compostaggio aerobico a causa dei cattivi odori emessi, della mancanza di spazi o della mancanza di materiale legnoso necessario per favorire il processo. Gli impianti anaerobici non sono esenti da identici impatti, anzi (pensiamo solo al percolato). Quanto poi alla mancanza di sfalci vogliamo ricordare che secondo le “Linee di indirizzo strategiche dell’area agricoltura per agro energie”  della Campania, nella regione sarebbero da soli sufficienti ad alimentare la produzione di energia per ben 76 MW e si arriverebbe a 98MW se si include la ramaglia di forestale. Altro che carenza.
Noi non facciamo alcuna distinzione; siamo contro tutti questi impianti che sono destinati a diventare inceneritori non autorizzati. Se nel “non colluso” Nord sono stati messi i sigilli alla centrale a biomasse della riso Scotti, perchè insieme al materiale di risulta della produzione e lavorazione del riso bruciava ogni tipo di rifiuto urbano ed industriale (nov 2010); se si è scoperta la stessa cosa alla centrale di Pieve di Teco (Imperia); se si bruciavano plastiche alla centrale a biomasse della Legno Energia in Valcamonica; cosa pensate succederà in una regione come la nostra?
Cosa pensiamo diventeranno anche le piccole centrali proposte per smaltire i reflui degli allevamenti quando ci si renderà conto che ci si guadagna più producendo biogas che non facendo mozzarella?
Ma il problema non è legato solo alla salute. Riteniamo che sia in gioco tutto il sistema agricolo ed il futuro dell’alimentazione mondiale, la biodiversità e la stessa vita.
Per alimentare le centrali a biomasse legnose di 1MW ci vogliono 14400 tonnellate annue. Per ottenere 2000 t/anno di olio di soia occorrono 11000 t di soia che significa 4000 ettari di terra per la sua produzione. Per alimentare tutte le centrali che vogliono costruire, sempre più terra sarà dedicata a queste colture. I prezzi di queste colture, a partire da soia,  mais , girasole, sorgo, ecc. saliranno e molti agricoltori, strozzati dai bassi prezzi dei loro prodotti, saranno tentati o a coltivare direttamente per le bioenergie o ad affittare  i propri terreni alle aziende produttrici di energia. Gli effetti saranno meno terra per il cibo e maggiori difficoltà per gli agricoltori che rimangono nella filiera agroalimentare per l’aumento dei costi di produzione (costo del terreno, maggiore costo dei foraggi –v. il mais- o dell’acqua). Peggio sarà per quelle produzioni agricole bio e per quelle di pregio. La crescita di domanda delle colture per l’energia, non dovendo più tener conto dei limiti imposti per le destinazioni alimentari, a) aumenterà l’uso di pesticidi e fertilizzanti, diventando un ulteriore fattore di inquinamento di terreni e falde acquifere, b) diventerà il cavallo di troia per l’introduzione degli OGM a cui, finora, l’Italia sembra resistere.  Si veda il megaprogetto sui biopolimeri che devasterà la Sardegna che ci sembra un’ottima sintesi di quanto abbiamo appena detto.
In altre parole l’agricoltura che conosciamo, quella della dieta mediterranea, quella che tuttora garantisce prodotti di pregio, sarà trasformata in una filiera agro energetica con la fine della piccola produzione e l’accaparramento di terreni da parte di grandi complessi industriali. Il cibo per noi e gli animali, lo importeremo, come già succede per parte dei foraggi o del grano a prezzi sempre più alti.
Questo almeno fino a quando ci sarà altrove abbastanza terra per le produzioni utili a sfamare interi popoli, visto che anche in altri paesi le grandi aziende e persino gli stati si stanno accaparrando terre (land grabbing) soprattutto a questo fine.
Nel nostro volantino abbiamo fatto la domanda: E’ vero che in questo modo salveremo l’agricoltura campana?
Gli impianti previsti nella nostra regione devono essere alimentati, per almeno il 30 per cento, da biomasse da filiera corta, cioè prodotta nelle vicinanze. Non c’è dubbio, quindi, che l’avvio del no food è legato all’alimentazione di queste centrali ed il rischio di uno stravolgimento dell’agricoltura campana nel senso che dicevamo è più che reale. La bonifica non c’entra assolutamente niente. A pagare il prezzo del nuovo business saranno le popolazioni ed i contadini, sia sul piano della salute che su quello economico.
A volere questi impianti è un sistema affaristico che punta agli incentivi (quantificabili in 5,8 miliardi di euro l’anno per 20 anni solo per il decreto Clini) e a lucrare sulla speculazione dei certificati per la riduzione di CO2 sul mercato mondiale della finanza.
Non c’entra nulla né il bisogno di energia (abbiamo già impianti per una potenza elettrica di 106 GW a fronte di un consumo che nelle punte massime arriva appena a 52 GW) nè la menzogna di voler incrementare  la produzione di energia da rinnovabile visto che si penalizzano le uniche rinnovabili come il solare o l’eolico.
Con le biomasse la monnezza  continuerà ad essere un affare e per questo dobbiamo riprendere a parlare delle nostre soluzioni. Basta parlare solo di morti e di tumori su cui, tra l’altro, siamo in concorrenza con troppi territori devastati tanto quanto la Campania (v. ultimo caso Abruzzo acqua inquinata dalla discarica Bussi della Montedison). E basta anche con questa ridicola querelle che torna sempre, a se il problema sono i rifiuti tossici  o quelli urbani con tanto di autocelebrazione dei propri meriti. I due problemi sono inscindibili e, come abbiamo sempre detto, non risolvere quello dei rifiuti urbani significa alimentare anche quello dei rifiuti tossici.
Dobbiamo ritornare in campo contrapponendo le nostre soluzioni che sono le sole che favoriscono l’unico vero recupero energetico che è quello che viene dalla energia non consumata e cioè dalla riduzione degli sprechi, dalla riduzione a monte dei rifiuti con l’eliminazione di produzioni inutili, dal riciclo e riuso e dalla reimmissione  di tutta la materia nel ciclo della natura.
Quanto alla bonifica sappiamo che appetiti sta suscitando anche alla luce dell’art. 4 del decreto Destinazione Italia che la trasforma in un trampolino di lancio per l’impiantistica.
Ci sono già fatti che provano che non solo le grandi imprese ma la stessa camorra, e il più delle volte insieme, guardano alla bonifica leccandosi i baffi. E’ il caso della gara per la bonifica, meglio dire messa in sicurezza, della Resit, dove sono spuntate, tra le altre, la solita Daneco – che ha gestito la discarica di Sant’Arcangelo Trimonte posta sotto sequestro e che è sotto indagine per lo smaltimento degli scarti tossici del sito di bonifica nazionale di Pioltello-  e la Italrecuperi, coinvolta nell’inchiesta sulla bonifica di Bagnoli area ex italsider a Napoli. Ma ci ha provato anche la ECOART con sede a Cesano Maderno (Monza), dietro cui ci sarebbero uomini dei casalesi. Addirittura la Ecoart pur di entrare nel settore delle bonifiche ha provato ad accaparrarsi i brevetti di una tecnica sperimentale, nuovissima e all’avanguardia mettendosi in contatto con il mondo universitario. Come a dire che è meglio fare attenzione anche alle idee innovative, alle nuove tecniche che non sono di per sé né sempre positive e nemmeno garanzia di estraneità dei poteri criminali.
Sulle soluzioni migliori abbiamo tutti la necessità di un supplemento di indagine Al momento come non  avvaloriamo il no food come tecnica di bonifica alla luce anche della sua finalizzazione, così non ne avvaloriamo nessun altra. Vogliamo sapere, capire e controllare caso per caso quello che si propone. Esattamente come abbiamo detto per la questione eco balle, pensiamo che quando il massimo del danno è già fatto è meglio non fare niente limitandosi a far uscire i terreni inquinati dalla produzione agricola piuttosto che apportare danni anche peggiori affidandosi a progetti di chi dalla bonifica vuole  solo spremere denaro.
Ma per avere davvero voce in capitolo è però necessario ritrovare la compattezza del movimento e riprendere l’iniziativa, senza più cedimenti o illusioni verso le istituzioni. Si dice che quando il diavolo ti accarezza è segno che vuole l’anima. Crediamo che la vicenda Terra dei fuochi sia emblematica di come abbiano utilizzato il dolore e la rabbia delle comunità per prenderci in giro.
Non possiamo più permetterlo anche se questo ci costerà la frattura con chi, in buona fede, ma soprattutto in malafede e per tornaconto personale, insegue le istituzioni sul loro terreno.
Loro sono una controparte. Ci ascolteranno solo se dimostriamo di avere la forza di imporgli quello che vogliamo.

RETE CAMPANA SALUTE E AMBIENTE

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