ROVESCIARE LA CRISI SUL CAPITALE. RECLAMARE UN REDDITO DI BASE PER
TUTT*
Con l’Autunno alle porte, la crisi economica stringe la sua morsa.
Il Governo Monti, chiamato a sospendere la democrazia parlamentare per
imporre provvedimenti che nessun politico “di professione” avrebbe avuto
la possibilità di proporre, ha chiarito fin da subito quali sarebbero
state le cooordinate generali dell’azione di governo. In barba ai
“sinceri democratici”, felici per l’arrivo di tanti professori a
sostituire una classe politica di predoni, i cattedratici hanno mostrato
quanto l’idea di “neutralità” dei “tecnici” fosse una bufala. Cresciuti
e formatisi tutti all’ombra del grande capitale finanziario e fedeli ai
suoi dettami, hanno subito palesato il loro ruolo di esecutori di un
Piano che mira a ricreare un assetto stabile per il capitalismo attuale.
Ampliamento dei provvedimenti di precarizzazione del lavoro, attacco
alle garanzie residue dei lavoratori con contratto stabile,
disgregazione del welfare, privatizzazioni e svendita del patrimonio
pubblico.
Un progetto politico teso a rendere sempre più debole e ricattabile una società, in cui il recupero del disavanzo avviene sulle spalle di lavoratori e pensionati.
Servivano così tanti accademici per varare provvedimenti così
rigidamente ispirati alle regole del capitale? Forse sì, se si prova a
leggere dentro l’esperienza di questo Governo il compimento di un
disegno politico di lunga durata, e cioè la definitiva esautorazione
anche degli organi propri della democrazia borghese e il passaggio
ormai finalmente evidente delle redini nelle mani di Banche e grandi
fondi d’investimento. I movimenti lo avevano denunciato già dagli anni
Novanta, lo hanno ribadito con le due grandi mobilitazioni di Napoli e
Genova del 2001 e durante questi ultimi anni, fino allo scorso 15
Ottobre. Le risposte le conosciamo tutti.
Oggi, i dati sulla povertà parlano di un Paese in cui aumentano
progressivamente le famiglie sulla soglia di povertà e quelle
precipitate nella povertà assoluta, con una contrazione netta dei
consumi che farebbe impallidire anche il più morbido dei riformisti.
Tutto questo, in un contesto in cui le reti di protezione sociale sono
scarse e manca, almeno in Italia una qualsiasi misura di sostegno. In
questa situazione è ancora più evidente che un reddito minimo e
incondizionato avrebbe un ruolo centrale contro lo sfaldamento della
società oltre ad essere uno strumento per la fuoriuscita da forme di
ricatto occupazionale che nel Meridione assume sempre più la forma di
dicotomia morte/miseria, come nel caso dell’ILVA di Taranto o
dell’inceneritore di Acerra.
In questa situazione, con la pressione fiscale sui redditi dichiarati e
l’enorme massa di evasione fiscale, che si somma a un fisco di per sé
iniquo, l’azione di governo cade come una mannaia colpendo il lavoro e
un welfare già ridotto al lumicino, senza toccare i patrimoni, il
sistema bancario e tanto meno le spese militari.
Anche a un osservatore non necessariamente esperto di economia, la
semplice lettura dei quotidiani rende evidente come la nebulosa chiamata
“crisi” rappresenti un momento di ristrutturazione del Capitale che fa
fronte alle sue difficoltà cicliche senza toccare rendite e patrimoni e
nemmeno i meccanismi di predominio della Finanza sull’economia reale che
la stessa crisi hanno accelerato e approfondito. Intanto, i media
mainstream continuano a propagandare una narrazione senza colpevoli.
Pare quasi che chi ha determinato lo stato attuale delle cose siano
stati lavoratori e lavoratrici con le loro assurde pretese di garanzie e
tutele sul posto di lavoro sommate a una endemica scarsa voglia di
lavorare. Un utile copertura ideologica alla sanguinosa “spending
review”, così come avvenuto per la riforma Fornero, che, dietro la
maschera delle necessità di bilancio ed in nome della competitività
apportano modifiche e tagli pesantissimi all’intero sistema del welfare
e delle tutele sul posto di lavoro. Politici, banchieri, finanzieri
d’assalto, intellettuali al soldo dei potenti che fino a ieri dicevano
che eravamo al sicuro o che, al più, era tutta colpa di Berlusconi
sembrano uscire candidi da questa vicenda. La crisi sembra un delitto
senza colpevoli.
Eppure la realtà è ben diversa.
E’ un pranzo a Manhattan fra i rappresentanti dei più importanti fondi
d’investimento del mondo a fornire un quadro chiaro di quello che sta
accadendo da alcuni anni. Davanti a un filetto al limone, una decina di
commensali ricchi e potenti decisero di investire su una grande
svalutazione dell’euro rispetto al dollaro. La crisi greca e tutto
quello che è successo dopo è cominciata con quella cena e il quadro di
questi uomini d’affari, dotati di un potere ben superiore a quello degli
Stati nazionali e degli organismi “democratici”, che decidono le sorti
di un’area geografica enorme in nome della religione del profitto, dice
tutto.
Sulla spinta di questi grandi stravolgimenti, il quadro politico
italiano prova a riadattarsi. Alle grandi manovre delle destre, che
provano a uscire dall’ombra ormai scomoda di Berlusconi, fa da
contraltare la mancanza di una visione “altra” dallo status quo da parte
della sinistra istituzionale, completamente subordinata ai dettami del
capitale. Se e come, di fronte all’esigenza dei “mercati” di avere nuovi
interlocutori affidabili, avverrà il riassetto della politica italiana,
dipende dalla risposta conflittuale che questo disegno troverà nel Paese
e dalla forza di una proposta di alternativa.
Certo, non è lecito aspettarsene dalla “sinistra” parlamentare, pur con
la stampella Vendola e il probabile “Partito dei Sindaci”, oltre a
quella scontata dei sindacati concertativi CGIL, CISL,UIL, impegnati a
ergersi come interlocutori privilegiati dei mercati, in nome della
governabilità, come già fatto in modo fallimentare dai Governi Prodi. E
meno ancora da quei settori dei Movimenti che fino a ieri sono stati in
piazza e oggi vorrebbero, con un’entrismo vecchio quanto il “cucco”
provare a far credere che è possibile costruire un’alternativa all’ombra
del sistema. Elemosinando briciole per ampliare i consensi in una
prospettiva che, anche quando numericamente forte come quella di Syriza
in Grecia, non può che arenarsi di fronte agli aut aut dei mercati.
Al di fuori da queste logiche, riteniamo doveroso avviare
percorsi che, traendo forza dalle forme di resistenza e dai conflitti che hanno attraversato il nostro tempo ed i nostri territori, puntino ad articolare un progetto di società differente.
La vicenda dell’Ilva di Taranto, nella sua complessità, vede al
capolinea non una fabbrica ma un sistema di produzione e
l’organizzazione della società in sua funzione.
Lo scontro verificatosi in quella città, dentro il ricatto posto dal
padronato e spalleggiato dai sindacati concertativi, avvelenarsi e
lavorare o condannarsi alla disoccupazione con l’aria pulita, ha messo
in crisi ogni possibile lettura del conflitto capitale lavoro così come
è stato concepito finora da Fiom, Fim e Uilm. E di difficile approccio
lo è anche dal punto di vista del ragionamento politico generale, se ci
si tiene ancorati a logiche produttive che mostrano la corda.
In realtà, il rompicapo di Taranto è un esempio evidente di come si
possa rovesciare il problema solo trasformando la lotta per il lavoro in
lotta per un reddito garantito, lavoro o non lavoro. E la crisi attuale,
che mette di fronte l’aumento costante dei profitti di un’oligarchia con
l’impoverimento di interi settori della società, rende ancor più
evidente che proprio questo è il momento di rilanciare una campagna di
lotta per il reddito che smuova le forze antagoniste dall’accerchiamento
e della resistenza per passare alla controffensiva.
“Retrocedere il lavoro da valore a strumento”, è stato detto, e
un’operazione di questo genere ci sembra una base concreta sulla quale
organizzare un percorso di conflitto sociale e di alternativa politica.
Proprio nel momento in cui, infatti, la frammentazione della Classe
sembra essere giunta al suo acme, è possibile
immaginare una via d’uscita provando a costruire intorno al tema del
reddito universale e del diritto alla vita – invece che di quello al
lavoro – un percorso di ricomposizione per figure sociali oggi
frammentate, lavoratori, cognitivi, precari, disoccupati, lavoratori
migranti e soggetti in formazione. Significherebbe, più in generale,
aprire uno spazio strategico di ricomposizione politica della classe
dentro un nuovo paradigma culturale strutturato intorno alla critica
radicale del rapporto sociale di produzione capitalistico.
Vicende come quella di Taranto, inoltre, che ricordano il ricatto di
qualche anno fa a Gela, mostrano bene come sia possibile costruire un
discorso d’alternativa anche insieme a quella classe operaia di fabbrica
che, con buona pace degli irriducibili lavoristi, perde centralità nei
nuovi assetti del Capitale, almeno in Occidente, e che proprio di una
via d’uscita di questo tipo ha bisogno per liberarsi da ricatti come
quello dell’ILVA.
La battaglia per il reddito universale ed incondizionato può essere un
elemento centrale per superare le tendenze corporative messe in atto da
certi settori del mondo del lavoro in risposta ai morsi della crisi e
può dare sostanza a quella insofferenza fortissima nei confronti della
classe dirigente che periodicamente è esplosa negli ultimi anni.
E’ la sfida della creazione non di un nuovo assetto del sistema
vigente ma di un nuovo modo di articolare i conflitti e rispondere alle
sfide che si presenteranno nell’immediato futuro. Lo dimostra, in
maniera lampante, il percorso di autogestione che ha mutato segno alla
lotta di Taranto, sottraendola alla contrattazione fra sigle sindacali e
padronato e portando al centro dell’attenzione la necessità di
autodeterminazione dei soggetti in lotta. E’ una tendenza che parte da
lontano e deve necessariamente guardare a quanto è accaduto nelle lotte
sociali ed ambientali di questo decennio, che hanno visto l’affermarsi
di pratiche diffuse di resistenza e di autogestione da parte dei presidi
territoriali e il rifiuto della delega a trattare di argomenti che
riguardano la salute pubblica.
A quei frammenti di autogestione, ricchi di protagonismo conflittuale e
di alternativa progettuale, bisogna guardare non come a un popolo nel
caos in cerca di una guida suprema, ma individuandone i germi di una
possibile trasformazione della politica.
Il ciclo di lotte che ha attraversato il Paese nell’ultimo decennio
dice che è diffusa, nel Paese, una volontà di mutare l’assetto dei
poteri e aprire alla costruzione di nuovi percorsi politici che mutino
la natura sostanziale della democrazia e dei modi di produzione. E’
necessario prestare attenzione a queste tendenze e metterle al centro
dell’analisi e dell’azione politica se si vuole evitare di lasciarle a
fenomeni di cartapesta come il grillismo o spingerle verso l’ombrello
protettivo di qualche sigla partitica di turno, vecchia o “nuova” poco
importa.
E’ ancora l’intervento di un operaio a Taranto a fornire all’analisi un
problema centrale: “Nella fabbrica non possiamo esprimere la nostra
intelligenza”. Liberare l’intelligenza collettiva, rovesciare il
paradigma della politica rappresentativa eliminando la delega, rendere
protagonisti i settori della società nelle decisioni che riguardano il
proprio destino, in tema di ambiente, lavoro, produzione e distribuzione
della ricchezza. Sono questi i temi che si pongono all’attenzione della
nostra riflessione e non perché vengano calati dall’alto da una qualche
elite di pensatori ma semplicemente perché sono le domande urgenti che
pone sul tavolo la società.
Rivendicare un reddito di base universale ed incondizionato, articolare campagne di riappropriazione di reddito indiretto, come
elemento concreto di una nuova modalità di distribuzione di una
ricchezza che – a dispetto della vulgata sulla crisi – c’è ed è
concentrata in poche mani, e come tema di ricomposizione di una classe
lavoratrice che ha una fisionomia ben diversa da quella del passato può
essere un passo in avanti significativo per abbattere lo stato di cose
presenti ed incamminarsi verso il regno del possibile, mai come oggi
necessario.
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