Il gioco delle tre carte del (n)Pci
Risposta al comunicato del (n)Pci sull’assemblea dello scorso 29 luglio a Napoli
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Onesto è colui che cambia il proprio pensiero per accordarlo alla verità. Disonesto è colui che cambia la verità per accordarla al proprio pensiero.
Proverbio Arabo
All’indomani della partecipata assemblea “uniti si vince” dello scorso 29 luglio, e a margine delle numerose adesioni al percorso che porterà alla giornata di lotta del 27 settembre, abbiamo registrato una “nota stonata”: ci riferiamo alla “scomunica” lanciata online nei confronti nostri e delle altre realtà promotrici dell’assemblea da parte del sedicente “Nuovo Pci”, sigla dietro la quale, con ogni probabilità, si cela il partito dei Carc, il quale, in un comunicato che alterna toni da turpiloquio gratuito (il titolo, “pensare non è come cacare” è tutto dire…) con una presunta “analisi” critica del comunicato dell’assemblea, arriva (udite, udite…) alla conclusione che il percorso “Uniti si vince” non sarebbe altro che un coacervo di rivendicazioni riformiste e addirittura concertative.
Trattandosi, come vedremo, di una polemica del tutto strumentale, pretestuosa e soprattutto contraddittoria, e dato che non sarà certo il venir meno del sostegno del n(Pci) a determinare le sorti del percorso inaugurato il 29 luglio, eravamo in un primo momento propensi a non dar seguito a tale comunicato e a seguire il vecchio adagio dantesco “non ragioniam di lor, ma guarda e passa”, ma la più che comprensibile indignazione di molti compagni presenti all’assemblea e le loro sollecitazioni a una nostra presa di posizione ufficiale, ci hanno spinto a sciogliere le riserve.
Lo scopo della presente nota è unicamente quello di chiarire all’esterno (e, speriamo, in via definitiva) come a nostro avviso dietro ai perentori e roboanti proclami contenuti nelle risoluzioni ufficiali si celi una condotta ambigua quando non apertamente opportunista sia del n(Pci) sia della sua proiezione esterna (Carc), e come la doppiezza di queste organizzazioni rendano oggettivamente impossibile una collaborazione politica.
Dunque, e ci teniamo a precisarlo, non siamo interessati a dar vita ad una sequela di “batti e ribatti”, di comunicati e controcomunicati,non solo perchè abbiamo altro da fare, ma soprattutto perchè non ne vediamo il senso politico.
Non si tratta di chiusura o settarismo, tuttaltro: la nostra storia di Laboratorio politico dimostra con i fatti che siamo sempre stati aperti alla collaborazione e al confronto a 360 gradi con l’intera galassia della sinistra di classe, compresa la stessa sezione flegrea dei Carc con la quale abbiamo in più occasioni collaborato, sviluppando iniziative e azioni di lotta comuni.
Ma il confronto, per essere costruttivo e non risolversi in una farsa, richiede come suoi presupposti minimi la lealtà degli interlocutori, la trasparenza dei rispettivi percorsi e soprattutto la coerenza tra il dire e il fare, cosa che nel caso di n(Pci) e Carc ci risultano del tutto assenti: a differenza di quanto vorrebbero far credere, essi non sono interessati a un confronto franco e aperto, ma solo ad affermare con i soliti toni paternalistici e con non poca saccenza (forse per autoconvincersene) il proprio ruolo di “suprema ed infallibile guida del socialismo”, nonché il proprio essere detentori dell’unico “verbo rivoluzionario”.
Entriamo dunque nel merito politico delle accuse lanciate dal n(Pci) all’assemblea del 29 luglio nel suo “avviso ai naviganti”, per vedere quanto vi sia di infallibile e di rivoluzionario nella condotta politica di questa organizzazione.
“Rivendicate “ la riduzione dell’orario di lavoro e il salario garantito a disoccupati e precari, ma non il socialismo… dunque siete riformisti!
Ora, chiunque si dichiari anche solo vagamente comunista dovrebbe aver ben presente l’elementare distinzione tra il piano d’azione politica e quella “sindacale-rivendicativa”, ovvero delle rivendicazioni concrete che la classe pone all’interno dell’attuale sistema di dominio capitalistico. Forse il (n)Pci, essendo troppo affaccendato a costruire il “socialismo” insieme ai parlamentari del M5S, a De Magistris o a Pisapia, non ha avuto il tempo di leggere il testo di indizione dell’assemblea del 29 luglio ne dato un’occhiata all’elenco dei promotori dell’iniziativa: se lo avesse fatto, si sarebbe forse reso conto che tale iniziativa è nata su spinta di un comitato di cassintegrati di Pomigliano, degli operai e dei facchini delle cooperative in lotta nelle cooperative della logistica aderenti al SI-Cobas, e da un coordinamento nazionale di disoccupati e precari impegnato nella costruzione di un vero percorso di lotta unitario capace di rispondere in maniera adeguata alla principale piaga con la quale i proletari devono fare i conti nell’era della crisi sistemica del capitalismo, ovvero l’assenza di lavoro e di un salario per vivere. A queste realtà il LP Iskra ha dato da mesi il suo sostegno politico e militante sulla base di una piena condivisione dei percorsi e delle pratiche di lotta reale.
Carc e n(Pci) scagliano fulmini contro di noi e ci richiamano “sulla retta via del socialismo”, eppure all’assemblea del 29 è intervenuto un membro della segreteria nazionale dei Carc, e dal suo intervento, nonostante il solito refrain degli appelli a dar vita al “governo di emergenza popolare”, non traspariva nessuna critica di rilevo tale da far presagire tanta acredine nei confronti dei promotori dell’assemblea e un tale nervosismo nei confronti delle iniziative che si stanno mettendo in campo. Quindi delle due l’una: o all’interno dei Carc è in atto una presa di distanza politica da quello che loro stessi hanno incoronato come “Nuovo partito comunista” oppure, più verosimilmente ci troviamo di fronte a una sorta di Dr Jeckill e Mr Hyde che, forse con lo scopo di confondere le acque, giocano a contraddirsi l’un l’altro…
I comunisti rivoluzionari non si sono mai sottratti dall’intervento diretto nel vivo delle contraddizioni del capitalismo e non hanno mai rifiutato, in nome di una presunta “purezza della dottrina”, a unirsi con le istanze provenienti dalla classe, alle sue lotte contro le singole e quotidiane manifestazioni dello sfruttamento, fin quasi a fondersi con esse. Casomai, la distinzione tra comunisti e riformisti non si misura, come vorrebbe farci credere il n(Pci), dal numero di volte in cui si pronuncia la parola “socialismo” all’interno di un documento, bensì dalla coerenza tra principi e pratica quotidiana.
I nostri “critici” si guardano bene dall’entrare nel merito della valenza di rivendicazioni quali la riduzione dell’orario di lavoro, il salario pieno ai cassintegrati e il salario garantito a disoccupati e precari, e non ci spiegano per quale motivo queste battaglie cozzerebbero con il “socialismo”. Evidentemente i nostri critici non conoscono (o meglio, fingono di non conoscere) la storia di due secoli di lotte proletarie contro lo sfruttamento, del sangue versato dal movimento operaio per conquistare livelli salariali non da fame, per ridurre la giornata lavorativa in modo da lavorare per vivere e non vivere per lavorare, delle lotte per estendere le tutele e i servizi sociali (istruzione, sanità, trasporto pubblico, quindi salario indiretto) a tutto il proletariato.
Certo, queste lotte non sono di per se socialiste, ma non è un caso se nella storia hanno sempre rappresentato la base di partenza per porre il nodo dell’incompatibilità tra gli interessi dei proletari con quelli della borghesia e quindi della necessita’ del superamento del sistema capitalista, e non e’ un caso se sono sempre stati i comunisti a guidare e sostenere queste lotte mentre il riformismo lavorava notte e giorno per depotenziarle ed annacquarle…
Il confine tra rivoluzionari e riformisti non sta, come vorrebbero farci credere n(Pci) e Carc, nel fatto che le tutte le lotte economiche sono riformiste, quanto dal modo con cui si interviene nelle lotte economiche, con quali parole d’ordine, quali prospettive e soprattutto nell’interesse di quale classe. E’ la coerenza tra le rivendicazioni immediate e la prospettiva dell’alternativa di sistema a distinguere i comunisti sia dal movimentismo minimalista, sia dal propagandismo astratto e chiacchierone di chi si limita ad evocare il socialismo senza muovere un solo passo concreto in quella direzione, o peggio ancora di chi, come i nostri critici, evocano il socialismo e poi compiono passi nella direzione opposta.
Come abbiamo ampiamente argomentato nel nostro opuscolo “Perchè lottare per il salario garantito”, oggi, nella fase di crisi sistemica del capitalismo, dove i padroni non sono più in grado di “creare posti di lavoro” ma solo di alimentare la loro fame di profitti attraverso le rendite finanziarie, le speculazioni e le bolle dei capitali fittizi, con milioni di disoccupati e precari al tempo stesso ricattati dal capitale con salari da fame e usati a loro volta da arma di ricatto nei confronti del resto della classe per imporre a quest’ultima continui cedimenti sul terreno delle tutele e dei livelli salariali, la battaglia per il salario e quella per la riduzione d’orario costituiscono l’unica strada percorribile per ricomporre una classe quantomai frammentata e polverizzata in migliaia di vertenze aziendali o di categoria (la gran parte delle quali difensive), e per evitare che la crisi attuale, invece che essere l’anticamera del socialismo, diventi un detonatore di guerre tra poveri, rigurgiti corporativi o peggio ancora nazionalisti e xenofobi, dunque l’anticamera di nuove ondate reazionarie.
Ci risulta quasi scontato e superfluo dover “ricordare” che se fino a 30-40 anni fa il capitale avrebbe potuto “concedere” il salario o la riduzione d’orario mantenendo pressoché intatto il proprio dominio di classe, oggi, trovandosi alle prese con la caduta del saggio di profitto e con un’imponente crisi di realizzazione, la lotta per salario pieno e riduzione d’orario diviene oggettivamente incompatibile col sistema capitalista, dunque pone in essere con ancor maggiore evidenza rispetto al passato la necessità del superamento di questo sistema: la lotta su salario e orario, dunque non è una semplice parola d’ordine “economico-vertenziale”, poiché nell’indicare un percorso unificante per il frastagliato fronte di classe sulla base di un obiettivo incompatibile col ciclo del capitale, è già a tutti gli effetti un tassello del programma politico per la rivoluzione, e quindi per il socialismo.
E’ ovvio, lo sappiamo bene, e ci sembra anche scontato doverlo ribadire, che la necessità del rovesciamento del capitalismo non si manifesta automaticamente nella classe e in chi lotta per salario e riduzione d’orario, ne emerge come semplice risultante della lotta rivendicativa, ma il compito dei comunisti è proprio questo: intervenire nelle lotte affinché queste non ripieghino (come succede troppo spesso oggi) sul binario morto dell’aziendalismo e della concertazione, indicare obiettivi che uniscano la classe e non alimentino la frammentazione in tanti atomi separati e inoffensivi per il padronato, e su queste basi, dal e nel vivo della dialettica dello scontro di classe, porre il tema del superamento del capitalismo e del socialismo, la cui necessità storica, per tradursi in movimento reale che cambia lo stato di cose presente, deve divenire patrimonio di milioni di proletari attraverso l’esperienza quotidiana di lotta contro i padroni ed il loro stato.
Chiedere il salario e la riduzione dell’orario di lavoro per tutti i proletari non significa affatto chiedere o elemosinare qualcosa a Letta, alla Confindustria o alle giunte locali “illuminate”: significa rendere palese all’intera classe l’incompatibilità tra i propri interessi materiali e le leggi fondamentali che regolano il sistema di produzione e di accumulazione capitalistico.
D’altra parte, la critica secondo cui nei nostri programmi non sarebbe abbastanza esplicito il tema del socialismo e del comunismo, pur non condividendola, potremmo accettarla da chi, in continuità con la secolare tradizione “ultrasinistra” di un pezzo del movimento comunista, ritiene, a nostro avviso peccando di infantilismo, che il ruolo dei comunisti nelle lotte economiche sia solo ed esclusivamente quello di “propagandare la rivoluzione”, non certo da chi, come n(Pci) e Carc, nelle lotte economiche ci interviene, come vedremo in seguito, con parole d’ordine e proposte ispirate all’interclassismo e all’elettoralismo.
Detto in estrema sintesi: senza lotta di classe, senza il protagonismo diretto di larghi strati della classe sfruttata, senza una piena autonomia da tutte le frazioni sociali e politiche della borghesia, senza un chiaro programma che faccia da ponte tra le istanze provenienti dalla classe e l’alternativa di sistema, parlare di socialismo si riduce a uno slogan vuoto, a un puro esercizio retorico con cui, invece di indicare ai proletari una strada per la loro emancipazione, si finisce per prenderli in giro e mantenerli legati a doppio filo all’egemonia politica e culturale della classe dominante.
Ma evidentemente i temi della ricomposizione di classe, della creazione di un unico fronte di lotta con una piattaforma chiaramente anticapitalista, dell’autonomia di classe da ogni partito, sindacato e istituzione borghese con cui abbiamo provato (con tutti i limiti) a fare i conti nell’assemblea del 29 luglio, al n(Pci) e ai Carc non interessano minimamente, poiché essi, come dimostra la loro condotta politica quotidiana, si pongono ben altri obiettivi.
Le domande sorgon spontanee…
Vediamo dunque dove materialmente vanno a parare le critiche di n(Pci) e Carc, ponendo ai lettori in via preliminare dei quesiti “facili facili”:
Forse il movimento No-Tav, le lotte degli studenti, dei precari, dei disoccupati, dei senza tetto, delle fabbriche dove si licenzia, si sfrutta e si mette in cassa integrazione, hanno forse il “socialismo” nel loro programma di rivendicazioni? Visto che la risposta e’ ovviamente no, come mai il n(Pci) non ha steso analoghi comunicati o “avvisi ai naviganti” per scomunicare i promotori di questi movimenti o di queste vertenze?
E’ in grado il (n)Pci di portarci anche un solo esempio di lotta rivendicativa che ha tra i suoi obiettivi fondanti “l’edificazione del socialismo”? Se, come crediamo, la risposta è no, allora le lotte rivendicative sono tutte riformiste?
E come mai il n(Pci) non si e’ indignato per l’assenza del “socialismo” tra le rivendicazioni dell’assemblea dello scorso 7 aprile a Grottaminarda promossa da Carc e Rete No-Debito, in cui si e’ proposto tutto e il contrario di tutto (dalla sovranita’ monetaria all’assedio al parlamento, dall’”audit” sul debito pubblico alla riduzione dell’orario di lavoro, dalle cooperative alle nazionalizzazioni, dalle “leggi anticasta” alle occupazioni di fabbrica…) per poi, com’era prevedibile, non concludere niente? Come mai questi “due pesi e due misure”?
E ancora, come mai n(Pci) e Carc sono tra le poche realta’ della sinistra di classe in Italia a non aver mai speso una sola parola in difesa o in solidarieta’ con i facchini del SI-Cobas, protagonisti di una lotta esemplare (e il più delle volte vincente!) in uno dei templi dello sfruttamento, non a caso controllato in larga parte dalle lobby delle cooperative legate al PD e alla CGIL?
Evidentemente, per il n(Pci) le lotte proletarie vanno sostenute solo fin quando restano ancorate a una dimensione vertenziale o locale o alla mera difesa dell’esistente… in pratica fin quando non fanno paura e non fanno male al padrone, mentre se qualcuno si pone il problema di unificarne i settori più combattivi esso reagisce bollandolo come riformista e concertativo; esso esalta e sostiene i tentativi di unificazione delle lotte solo quando, come a Grottaminarda, ci si mantiene ben dentro la cornice delle compatibilità col padronato o quando sono intrise di programmi e parole d’ordine nazionaliste e interclassiste: se invece tali tentativi si fondano sull’autonomia di classe e su parole d’ordine anticapitaliste, le supreme guide spirituali del n(Pci) si ricordano del “socialismo” come discriminante!
In realtà non c’è bisogno di attendere che sia l’interlocutore a dare risposta a questi quesiti, per il semplice motivo che la risposta ci viene data dai fatti: è solo sulla base di questi ultimi, e non certo degli slogan declamati nei giorni di festa, che è possibile comprendere come nel caso del n(Pci) e dei suoi adepti, non ci troviamo di fronte a chi vuol indicarci una strada diversa per arrivare alla stessa meta, bensì a chi ci propone una strada diversa perché diversa è la meta che si vuole raggiungere; non ci troviamo di fronte a semplici compagni “dalle idee confuse”, quanto a un’organizzazione politica che in maniera organica persegue un programma di collaborazione di classe e di abbandono del marxismo.
“Dichiarate che non esistono più margini di concertazione e ritenete esaurita ogni ipotesi di battaglia difensiva, e poi sostenete le lotte nella logistica e ammettete la possibilità di vittorie parziali”
Il n(Pci), riguardo a tali passaggi compiuti nella risoluzione finale dell’assemblea, reputa contraddittorio e addirittura “caotico” il nostro ragionamento.
Vediamo dunque più da vicino di cosa stiamo parlando.
Che non esistano più margini di concertazione e di riformismo non lo diciamo certo noi: lo certifica la stessa borghesia, la quale dopo aver cancellato con la scure, a colpi di controriforme (e servendosi indistintamente di governi di centrodestra come di centrosinistra) tutte le conquiste ottenute dalla classe operaia dal dopoguerra fino al 1980, ha dichiarato conclusa la stagione della concertazione, dei compromessi e dei tavoli di trattativa, trasformando i sindacati confederali (Cgil-Cisl-Uil), col loro beneplacito, in mere agenzie di servizi e in ratificatori di “accordi” prestampati dai padroni: chi si oppone a quest’andazzo viene colpito con leggi antisindacali ed estromesso dalle fabbriche, come dimostra il Piano Marchionne e mille altri esempi di attacco alle libertà sindacali, e il fatto che a pagarne il prezzo negli ultimi anni, oltre ovviamente al sindacalismo di base, è stata addirittura la Fiom, è un dato su cui occorrerebbe riflettere non poco..
Il n(Pci) a questo punto ci chiede:”se dite che la stagione del riformismo e della concertazione si è conclusa, volete forse dire che in passato queste erano praticabili?”. La risposta è si, e anche in questo caso non siamo noi ad affermarlo, bensì la dinamica oggettiva del capitale: fin quando quest’ultimo era in crescita e poteva disporre di un surplus di profitti, esso preferiva, seppur controvoglia, concedere qualcosa al movimento operaio (si veda la scala mobile, i contratti collettivi nazionali, le case popolari, la gratuità dell’istruzione e tutte le conquiste dei primi decenni del secondo dopoguerra) pur di mantenersi al potere e disinnescare il pericolo di una rivoluzione proletaria. E’ vero che tutto ciò era possibile anche e soprattutto grazie alla spinta del movimento di classe e delle sue organizzazioni, ma resta il dato oggettivo che ciò che la borghesia poteva concedere nel 1969 non può più permettersi di concederlo oggi che si trova in piena crisi.
Dunque, da ciò ne deriva che ogni battaglia parziale è automaticamente destinata alla sconfitta? Una tale affermazione sarebbe stupida e meccanicistica. Noi diciamo altro: vincere battaglie parziali è possibile, ma a condizione che i lavoratori riprendano a lottare, come e più di prima, fuori dagli schemi aziendalisti e difensivisti con cui sono stati abituati per decenni dai vertici sindacali e dal riformismo.
La lotta dei facchini della logistica dimostra proprio questo: laddove migliaia di lavoratori si sono trovati per anni in una condizione di sostanziale semischiavitù, l’autorganizzazione dal basso e la presenza di un sindacato di base realmente combattivo, a forza di picchetti, scioperi, iniziative di lotta reale e soprattutto di un’ampia rete di solidarietà messa in piedi da altri lavoratori e proletari, ha fatto si che oggi in quel settore non solo viga il rispetto del contratto collettivo nazionale, ma il più delle volte i facchini siano arrivati con la lotta a percepire salari ben più alti del contratto stesso!
Si può esportare questo modello ad altri segmenti e in altre aziende? Noi pensiamo di si, a condizione che il movimento operaio si liberi dall’influenza nefasta dei sindacati filopadronali (Cgil-Cisl-Uil-Ugl) e di tutti coloro che non fanno altro che trasmettere alla classe sfiducia e rassegnazione.
Lotte del genere mettono in discussione il capitalismo? Se esse restano limitate all’aspetto economico-vertenziale, la risposta è ovviamente no, ma è un dato di fatto che una lotta che vince concorre a trasmettere alla classe fiducia nei propri mezzi e funge da esempio anche per altri proletari: il protagonismo della classe, la diffusione di forme di autorganizzazione, di insubordinazione ai diktat del padronato e di violazione della “legalità” con cui lo stato borghese cerca di imbrigliare le lotte, sono le precondizioni senza le quali è impossibile anche solo immaginare un’alternativa di sistema e di potere…
Lo scopo dell’assemblea del 29 era proprio quello di stimolare e incoraggiare l’avverarsi di questa precondizione: il resto del lavoro, come dicevamo sopra, va svolto dalle avanguardie e dal confronto interno ai comunisti e alla sinistra di classe…
Ma, che il n(Pci) lo comprenda o no, non era il 29 luglio la sede adatta a tale confronto.
Ciascuno è libero di condividere o meno tale impostazione, ma non si capisce in base a cosa questa possa essere definita “caotica”: il caos, casomai, alberga nelle teste di chi, come il n(Pci), dice una cosa e ne fa un altra…
Irisbus e dintorni
Ci sarebbe infatti da chiedersi come il n(Pci) traduca materialmente la propria parola d’ordine “vincere è possibile: ogni fabbrica dev’essere riaperta!”. Dietro a questo slogan abbiamo assistito negli ultimi anni a una ricerca ossessiva, da parte di n(Pci) e Carc, di trasformare ogni vertenza operaia in un progetto di cooperative: i tentativi da parte loro in questa direzione sono stati molteplici, su tutti valga l’esempio dell’Irisbus di Valle Ufita, dove i nostri “critici” hanno per mesi prefigurato al comitato Resistenza Operaia la possibilità di far rilevare la fabbrica di autobus in dismissione dagli operai stessi attraverso una serie di progetti e di incontri istituzionali che hanno coinvolto e visto in prima fila autorevoli rappresentanti del M5S.
Non entrando nel merito dell’utilità o meno della cooperazione e dello strumento della cooperativa come “leva vertenziale” o possibile soluzione “qui ed ora” alle dismissioni industriali, ci chiediamo quali risultati tangibili abbia portato la strategia del n(Pci) e Carc. Se lo chiedono anche gli stessi compagni di Resistenza Operaia, i quali, dopo mesi e mesi di giri, incontri e processioni presso università, enti locali e gruppi parlamentari, si ritrovano ancora oggi al punto di partenza.
I nostri interlocutori ci risponderanno che si tratta solo di tempo, e che esperienze di autogestione operaia già esistono. Noi di esperienze di reale autogestione in Italia ne conosciamo solo una: si tratta della Coop Cantieri Navali Megaride di Napoli, ma giova ricordare ai nostri interlocutori che quest’ultima, per raggiungere l’obiettivo minimo di riprendere la produzione sotto controllo operaio (per giunta, occorre ricordarlo, pur sempre dentro un mercato capitalistico, con tutto ciò che ne consegue…), ha dovuto occupare la fabbrica per quattro anni, nel corso dei quali gli operai non solo sono rimasti a presidiare i macchinari, ma sono stati protagonisti di tutte le più importanti lotte proletarie sia a livello cittadino che nazionale, dando vita a una rete di solidarietà così forte ed estesa da mettere all’angolo non solo i padroni, ma anche tutto lo stuolo di sindacalisti e politicanti che avevano già sancito la dismissione degli impianti produttivi e il licenziamento di tutte le maestranze!
Dunque, le cose non sono così facili come n(Pci), Carc e M5S vorrebbero far credere agli operai Irisbus: tanto più in una fase come quella attuale, senza un reale percorso di lotta, senza il collegamento e l’unità di tutti i proletari in lotta, le vertenze, soprattutto laddove gli operai si trovano già fuori dalla fabbrica, sono inesorabilmente destinate alla sconfitta.
Sarebbe fin troppo bello se a ogni operaio licenziato, per risolvere il dramma di ritrovarsi senza lavoro e senza salario bastasse unirsi a un gruppo di colleghi e presentare un bel progettino di rilancio a un parlamentare, a un’amministrazione o a un’ente “amico”… ma chiunque può capire come una cosa del genere, in regime capitalistico, equivale a nient’altro che una favola per bambini.
Per questo motivo, il millantare soluzioni facili e a portata di mano (come se i comunisti fossero un agenzia di collocamento!) alla lunga si risolve in una presa in giro dei lavoratori, e tali illusioni finiscono inevitabilmente per ripercuotersi come un boomerang su chi le semina.
I fatti valgon più di mille parole…
Coloro che si scagliano contro l’assemblea del 29 luglio e si camuffano nelle vesti di difensori della prospettiva “socialista”, sono in realtà gli stessi che a partire dalla meta’ dello scorso decennio hanno avallato e legittimato politicamente l’involuzione e la deriva clientelar-elettorale di settori importanti del movimento di classe, in primo luogo a Napoli e in Campania. Ci riferiamo, in particolare alle esperienze di lotta dei disoccupati e dei lavoratori delle società partecipate di comune, provincia e regione: questi movimenti, che per anni hanno rappresentato il principale baluardo dell’opposizione di classe allo strapotere bassoliniano, si sono in parte e col tempo trasformati in massa di manovra dei vari assessori al lavoro delle amministrazioni locali all’epoca del “centro-sinistra”.
Molti compagni hanno ancora impresso nella memoria lo spettacolo desolante di alcuni “leader” di movimento che andavano in giro a tessere le lodi o a distribuire ai propri iscritti i fac-simile di propaganda elettorale per Corrado Gabriele, assessore al lavoro prima alla provincia e poi alla Regione, all’epoca esponente di Rifondazione Comunista e poi “scivolato” prima nel PD, ora nel PSI, ma soprattutto ideatore di un fitto sistema consociativo fatto di briciole e prebende da elargire ai proletari al fine di minare l’autonomia delle lotte e legarle al proprio carrozzone.
Oggi, a distanza di anni, gli esiti disastrosi di questa condotta che ha affidato le sorti dei disoccupati e dei lavoratori nelle mani del politicante di turno sono evidenti a tutti: il progetto-Bros (la miseria di 596 euro al mese, per giunta senza alcuna finalizzazione o prospettiva di stabilità) è naufragato insieme alle fortune politiche del suo ideatore, e da quasi quattro anni migliaia di precari sono di nuovo precipitati nel baratro della disoccupazione e dell’assenza totale di salario; da allora il movimento ha iniziato una fase di riflusso sia quantitativo che qualitativo: la sfiducia e la mancanza di autonomia ha da un lato allontanato molti tra i proletari più combattivi, dall’altro ha sedimentato in molti altri l’illusione che soltanto attraverso la “benevolenza” di qualche politico o di qualche amministrazione “amica” sia possibile ottenere risultati concreti; nelle società partecipate la musica non cambia: da anni migliaia di lavoratori sono sotto attacco permanente delle istituzioni, le quali a poco a poco stanno erodendo le tutele e i livelli salariali, o, come nel caso dell’Astir, decretando la cassa integrazione come primo passo verso la messa in mobilità, e anche in questo caso la risposta di classe è stata debole (al punto che la gran parte dei sindacati ha firmato per la cassa integrazione), e nonostante la generosità di alcuni vecchi quadri di movimento, il grosso dei lavoratori è ancora restìo a riprendere la lotta. Evidentemente, quando per troppo tempo si abituano i lavoratori ad attendere che sia il dialogo con le istituzioni “democratiche” a risolvere i problemi, il risultato non può che essere la passività…
La realtà dei fatti, dunque, ci dice chiaramente che il venir meno dell’autonomia dalle istituzioni borghesi e dai politicanti parassiti è il miglior viatico per la sconfitta delle vertenze…
Su tutto cio’ non abbiamo mai letto ne sentito uno straccio di riflessione ne da parte del n(Pci), ne da parte dei Carc: la cosa non ci sorprende, per il semplice fatto che n(Pci) e Carc sono stati tra i principali sostenitori della svolta filo-istituzionale, e dato che l’evidente fallimento di questa strategia avrebbe imposto una severa autocritica, per chi si ritiene depositario della “giusta linea” e si e’ da tempo autoproclamato “unica suprema guida della rivoluzione socialista” ciò è evidentemente impossibile.
Quale socialismo?
In effetti, negli ultimi anni la strategia dell’attraversamento istituzionale e del sostegno elettorale da parte di n(Pci) e Carc a liste e partiti della sinistra borghese è andato assumendo le forme più disparate, fino a raggiungere il parossismo: dall’invito a votare PD nelle elezioni politiche del 2008 “qualora non vi fossero altre liste di sinistra” (sic!) passando per l’infatuazione e il sostegno acritico alla “rivoluzione arancione” di De Magistris (con tanto di candidati nella lista civica personale dell’ex-PM), fino ad arrivare alla vera e propria folgorazione per Grillo e il populismo interclassista del M5S, il tutto condito da una pletora infinita di proclami, comunicati e risoluzioni che individuano di volta in volta in uno di questi personaggi il leader di un fantomatico “governo di emergenza popolare”, il quale, ovviamente, dovrebbe spianare la strada al “socialismo”… In pratica n(Pci) e Carc vedono il socialismo dappertutto, basta alzare un po’ la voce, inveire contro la casta o contro gli eccessi del capitalismo e puoi essere arruolato nel Governo di emergenza popolare!
Quest’ultimo slogan, ripetuto come un disco rotto in ogni occasione da ogni membro dei Carc, viene sempre più spesso accompagnato dall’esortazione a dar vita a un “governo-ombra”: in sostanza, dietro tanti giri di parole e di richiami astratti al “socialismo”, viene rispolverata l’idea portata avanti da Occhetto nel 1989 (dunque, e non a caso, a ridosso della Bolognina) e che servì da volano all’ultimo PCI per approdare non certo al socialismo, bensì al governo borghese della sesta potenza capitalista mondiale!
Ci chiediamo cosa c’entri col socialismo e con la rivoluzione lo scimmiottare le idee più deteriori dell’ultimo PCI (per giunta non potendo contare neanche su un millesimo della forza che aveva quest’ultimo negli anni ’80…), e facendo appello a Grillo, De Magistris, Rodota’, Landini, ecc. a che sposino questa causa!
Infine, per non farsi mancare niente, ci si spinge al punto di invitare tutte le amministrazioni comunali di centro-sinistra a trasformarsi in amministrazioni di emergenza popolare!!! Manca solo che si chieda a Marchionne di socializzare la Fiat e siamo al completo!
In realtà, se si leggono in filigrana i comunicati del n(Pci) non ci vuole poi molto a capire che dietro tutto questo guazzabuglio di slogan e proclami in cui dentro c’è tutto e il contrario di tutto, l’unica certezza e’ l’assenza di qualsiasi riferimento all’anticapitalismo e all’autonomia di classe.
N(Pci) e Carc evidentemente sognano di arrivare al socialismo attraverso la via elettorale del M5S o addirittura attraverso la nascita di un governo PD-SeL-M5S: se così non fosse, non si spiegherebbe la loro gioia, proclamata in un comunicato ufficiale, per l’elezione della Boldrini e di Grasso ai vertici del parlamento borghese, o la loro partecipazione entusiastica alle manifestazioni-farsa a sostegno della candidatura di Rodotà al quirinale (smobilitate in pochi secondi dallo stesso Grillo appena quest’ultimo si era reso conto che la piazza era inferocita sul serio, e non solo per il siluramento di Rodotà da parte del PD…). Dunque, mentre a parole si sbraita contro la “repubblica pontificia” esortando le masse popolari a un suo rovesciamento, nei fatti si invoca una riforma di quella stessa repubblica, magari con una spruzzatina di grillismo o invocando il soccorso salvifico di qualche nume tutelare della sinistra borghese e di qualche magistrato “illuminato”.
Risulterà facile comprendere allora i motivi per cui n(Pci) e Carc stendono i tappetini rossi ai parlamentari del M5S e poi lanciano strali contro un assemblea operaia imputandole la colpa di non lottare “per il socialismo”, del perchè si plaude ad ogni occasione ai grillini e poi si spacca il capello in due su una mozione che invita i proletari a mobilitarsi per costruire una vera opposizione di classe!
Tra l’altro, davvero stentiamo a capire che bisogno ci sia di dar vita a una struttura “semi-clandestina”, quando poi tutto si risolve nel sostegno al M5S o ad altri partiti istituzionali…
Siamo certi che i nostri “critici” saranno pronti ad obiettarci: “ma come fate a non vedere che il M5S interpreta e da voce al malcontento di larga parte delle masse popolari?”. A questa obiezione, che n(Pci) e Carc di certo ci muoverebbero al fine di riportarci sulla “retta via”, rispondiamo che non siamo certo ciechi: l’ipoteca da parte di Grillo e Casaleggio anche sul malcontento di larghi strati operai e proletari lo vediamo eccome, e non ci lascia affatto indifferenti, casomai ci preoccupa, poiché è la testimonianza più nitida dell’incapacità della sinistra di classe di sintonizzarsi e interfacciarsi con le condizioni materiali di vita e con i problemi quotidiani della classe sfruttata. Il fatto che quest’ultima, dopo aver finalmente voltato le spalle alla sinistra borghese, si rivolge a un movimento populista e giustizialista che nel nord-est gode del sostegno del segmento più retrivo e reazionario del padronato, e che a pochi giorni dal voto ha dichiarato per bocca del suo leader di avere molte cose in comune con i fascisti di CasaPound, per noi non rappresenta altro che lo specchio della debolezza del movimento comunista nel momento in cui i nodi (ovvero la crisi economica, politica e culturale del capitalismo) vengono al pettine!
Il M5S, con il suo isterismo anticasta, le sue ansie moralizzatrici, il suo rifiuto (finora) di salire sul carro del bipolarismo, rappresenta senz’altro il termometro di un malcontento potenzialmente favorevole a una ripresa su larga scala dello scontro di classe, ma se i comunisti non chiariscono senza equivoci e ambiguità la loro autonomia e alternatività al grillismo e alle sue pretese di mettere l’operaio sulla stessa barca del proprio sfruttatore, essi finiranno per svolgere il ruolo di “utili idioti” al servizio di un progetto che, in definitiva, si ripropone di cambiare tutto per non cambiare niente, di “rivoluzionare” il sistema politico (sovrastruttura) lasciando intatta la struttura dei rapporti sociali fondata sul profitto e sullo sfruttamento capitalistico… Altro che socialismo!
Al disoccupato, all’operaio licenziato, alla casalinga che torna a casa con le buste della spesa sempre più leggere, al valsusino che non vuole il proprio territorio devastato dalla Tav, dovremmo essere capaci, come comunisti, di offrire un’alternativa programmatica fondata sull’autonomia di classe e sull’attualità della trasformazione rivoluzionaria, non certo, come fanno Carc e n(Pci), contribuire ad alimentare l’illusione populista-interclassista di Grillo e compagnia: i comunisti hanno, oggi più che mai, il dovere di essere chiari e trasparenti di fronte alla classe e di evidenziare che nessun voto “democratico” e nessuna legge anticasta servirà a sottrarre i proletari da un destino di sfruttamento, disoccupazione e bassi salari! D’altronde, se è vero che una buona parte del malcontento proletario è stato elettoralmente capitalizzato dal M5S, è altrettanto vero che una fetta altrettanto corposa ad ogni elezione va ad ingrossare le file dell’astensionismo…
Giunti a questo punto, diviene lecito chiedersi: ma qual’è il socialismo che n(PCI) e Carc si propongono di realizzare? Le parole “socialismo” e “socialista”, infatti, non hanno mai avuto un significato univoco nella storia del movimento operaio: basti pensare, tanto per restare in tempi recenti, al PSI di Craxi che continuava a professare la sua fede nel “socialismo” nel mentre smantellava la scala mobile e finanche nel periodo di Tangentopoli, oppure a Massimo D’Alema, il quale, dopo essere passato alla storia come il primo presidente del consiglio guerrafondaio dai tempi di Mussolini, continua a professarsi fautore del “socialismo europeo”. La parola “socialismo” e “socialista” negli ultimi due secoli si è prestata a una miriade di significati, capaci di abbracciare le più svariate forme di stato e di governo, da quelle partorite dalla rivoluzione proletaria a quelle fondate sul nazionalismo democratico delle ex-colonie, dai capitalismi di stato (che i nostri “critici” continuano a considerare un modello esportabile, nonostante le sue storture e deformazioni, nella realtà odierna) al socialismo “radical-riformista” fino ad arrivare al socialismo liberale fautore di un “capitalismo temperato” e che tuttora governa le principali democrazie capitaliste in alternanza con la destra.
Tuttavia per il marxismo quest’enorme varietà di “socialismi” si riduce essenzialmente a due opzioni fondamentali: da una parte il riformismo socialdemocratico che, nell’illusione di un futuro avvento del “sol dell’avvenire” lavora di fatto per mantenere la classe sotto il giogo della borghesia, dall’altro il comunismo rivoluzionario, per il quale il socialismo non è altro che il primo passaggio verso la società senza classi, il comunismo. La storia ci insegna che tutte le altre correnti intermedie del socialismo, prima o poi, sono sfociate o nel comunismo rivoluzionario o nel riformismo e/o nell’ interclassismo.
A ben vedere, che i germi dell’interclassismo abbiano profondamente attecchito all’interno del n(Pci) lo dimostrano le stesse critiche al documento finale dell’assemblea del 29 luglio, in particolare quando ci si accusa di aver focalizzato l’attenzione solo sulla condizione dei proletari e quindi di non tener in debita considerazione la situazione del resto delle “masse popolari”. Dietro quest’affermazione, all’apparenza marginale e secondaria rispetto al complesso di enunciazioni racchiuse nell’ “avviso ai naviganti”, si annida in realtà il “nocciolo della questione”, lo spartiacque tra classismo e interclassismo.
Per quel che ci riguarda, non ignoriamo di certo che la crisi sistemica del capitalismo, oltre a produrre attacchi durissimi al salario diretto, indiretto e differito, trascina in un vortice di proletarizzazione crescente anche pezzi consistenti di piccola borghesia e di quelle categorie sociali a metà strada tra borghesia e proletariato. Preso atto di ciò, si tratta però di capire su quali basi, in nome di quali interessi e soprattutto contro quale nemico i proletari dovrebbero unirsi con gli altri soggetti colpiti dalla crisi.
Che la piccola borghesia, i bottegai, gli artigiani, ecc. tendano alla proletarizzazione non è certo un fenomeno nuovo, bensì un processo (che la crisi odierna non fa altro che accelerare) insito nella natura del sistema di produzione capitalistico e noto già a Marx, che non a caso gli dedica ampio spazio nel “Manifesto del partito comunista”:.
“In tutte le classi che stanno di fronte alla borghesia, solo il proletariato è la classe realmente rivoluzionaria. Le altre classi vacillano e periscono con la grande industria; il proletariato, al contrario, ne è il prodotto più specifico.
I ceti medi, i piccoli industriali, i piccoli commercianti, gli artigiani, i contadini, combattono la borghesia perché essa minaccia la loro esistenza in quanto classe media. Dunque, non sono rivoluzionari, ma conservatori. Anzi, sono reazionari, perché chiedono che la storia cammini all’indietro. E se questi ceti agiscono in modo rivoluzionario, è perché temono di cadere nel proletariato; essi difendono in tal modo i loro interessi futuri, non quelli attuali; abbandonano il proprio punto di vista per assumere quello del proletariato.”
Non è un caso se l’analisi marxiana rispetto alla piccola borghesia ha rappresentato un caposaldo del leninismo e di tutto il movimento comunista rivoluzionario.
Dunque, è senz’altro auspicabile che i settori intermedi tra le due classi principali e la piccola borghesia rovinata dalla crisi si uniscano al proletariato nella lotta contro il capitale, ma a condizione che siano le “mezze classi” a seguire il proletariato su un terreno anticapitalista, e non, viceversa, i proletari a salire sul carro della piccola borghesia mutuando programmi, parole d’ordine e modi d’agire di quest’ultima. Purtroppo, è proprio ciò che accade da alcuni decenni a questa parte: la classe operaia e l’intero proletariato, privi di una loro organizzazione politica, vengono quasi sempre usati come massa di manovra a sostegno di concezioni, di programmi e di interessi che sono espressione di altri gruppi e segmenti sociali.
Oggi, nel pieno della crisi capitalistica, chiunque si trovi in un luogo di lavoro, in una piazza o in un mercato, può osservare come settori consistenti di operai e proletari vengano quotidianamente arruolati e trascinati in campagne d’opinione che vanno dal democraticismo radicale (“contro la casta”, “contro gli sprechi”, “contro il debito”, ecc.) al nazionalismo reazionario più becero (“fuori gli immigrati”, “lavoro agli italiani”, “ritorno alla lira”, ecc.), a dimostrazione che il menu offerto dalla piccola borghesia travolta dalla crisi contiene di tutto, tranne che la lotta di classe.
Fin quando il movimento proletario resterà prigioniero di queste suggestioni e di queste infatuazioni, fin quando esso non saprà attrezzarsi con un proprio programma autonomo da tutte le altre classi, fin quando i comunisti continueranno a rincorrere le mezze classi e le loro concezioni, possiamo parlare di socialismo quanto vogliamo, ma nei fatti, con buona pace di n(Pci) e Carc, si continuerà a marciare nella direzione opposta.
Noi pensiamo ed auspichiamo, senza alcuna presunzione e senza alcuna mania di primogenitura, che l’assemblea del 29 luglio scorso e la manifestazione nazionale del prossimo 27 settembre possano rappresentare un piccolo ma importante tassello verso il rilancio di una piattaforma di lotta autonoma e di classe, che possa contribuire a liberare il movimento proletario dalla pletora di urlatori di mestiere, apprendisti stregoni, intellettuali in cerca di “nuove vie” e profeti della doppia morale che finora non hanno fatto altro che contribuire, volenti o nolenti, a mantenere gli sfruttati in una condizione di totale subalternità politica e culturale nei confronti della classe dominante.
1/9/2013
Laboratorio Politico Iskra
Coc- Napoli
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