Si è svolto sabato 30 marzo, nell’aula I della Facoltà di Lettere della “Sapienza”, il primo incontro dei firmatari dell’appello “L’università che vogliamo”, per la difesa dell’Università pubblica contro i processi di vera e propria distruzione già avviati dal ministro Berlinguer, proseguiti coerentemente dai suoi successori e portati infine a compimento dalla Gelmini.
L’appello, proposto da Piero Bevilacqua e Angelo D’Orsi, ha già avuto l’adesione di circa 800 docenti strutturati e di personale tecnico amministrativo oltre ad altre centinaia di precari (l’appello si può leggere, e firmare, nel sito di Historia Magistra). L’assemblea, che ha assunto il nome di “Stati generali dell’Università italiana”, è stata affollata e partecipata, e si è basata su una serie di introduzioni e interventi programmati fra i quali spicca la relazione di Piero Bevilacqua intitolata “La sfida ai saperi, la sfida dei saperi” (ne consigliamo vivamente a tutti/e la lettura, presso il sito www.amigi.org, dove essa è pubblicata con gli altri materiali dell’incontro del 30 marzo).
La rilevante novità teorica e politica di questa iniziativa consiste nella capacità di cogliere finalmente il carattere di fondo, e di lunga durata, dei processi degenerativi i cui effetti sono oggi evidenti a tutti: questa scelta delle classi dominanti (in specie italiane ed europee) è infatti strettamente legata alla fase storica segnata dalla irresolvibile crisi capitalistica. Il capitale non ha alcun bisogno (e neppure alcuna capacità) di investire in ricerca e in cultura, esso si limita a considerare anche l’Università un luogo di valorizzazione e speculazione, che deve agire in stretta subordinazione rispetto alle esigenze delle imprese (per giunta di breve periodo) e servire semmai a fornire un po’ di profitti improprii attraverso la privatizzazione di beni pubblici (leggi: i patrimoni delle Università).
La riduzione del numero degli studenti e dei laureati; la mortificazione di ogni forma di diritto allo studio; il definanziamento costante dell’Università pubblica che ne mette in forse la stessa esistenza; la differenziazione esasperata dei livelli dei titoli di studio e degli Atenei (con la truffa di “aree di eccellenza”, sempre e solo auto-proclamate); l’adozione definitiva del precariato, non solo come modalità di reclutamento ma soprattutto come modello di vita e di organizzazione sociale; la soppressione di qualsiasi forma di democrazia con la consegna di tutto il potere ai rettori e, tramite loro, alle imprese private; il proliferare delle Università private e delle spesso criminali Università telematiche (le une e le altre di norma pagate col denaro pubblico!): tutto ciò non deve dunque essere considerato un inconveniente o un difetto della linea Berlinguer-Gelmini ma al contrario ne rappresenta la vera ratio, il suo autentico quanto inconfessato obiettivo.
Esiste insomma una perfetta corrispondenza fra le modalità della didattica sempre più meccanizzata, degradata e mercificata del “3+2” e quello che abbiamo chiamato “la distruzione capitalistica dell’Università”. Naturalmente fa parte di questa distruzione anche la massiccia e univoca campagna di falsità condotta dai mass media dominanti contro l’Università pubblica (se ne veda un esempio nei dati falsi e falsificati propalati dal prof. Roberto Perotti dell’Università Bocconi, che mi sono divertito a sbugiardare pubblicamente nel mio libretto “L’Università struccata”, Edizioni Punto Rosso di Milano). Oggi fa parte di questa campagna reazionaria il “sondaggio” truffaldino proposto dal Ministro Profumo per sapere cosa ne pensa “la ’ggente” del valore legale del titolo di studio, abolendo il quale varranno solo le lauree presso la Bocconi di Monti (e Perotti) o il Politecnico dello stesso Profumo o il “S. Pio V” di Buttiglione, mentre tutte le altre lauree dei nostri giovani varranno zero carbonella. A proposito: ecco una cosa che possiamo fare tutti/e insieme e subito (“Controlacrisi” ci può aiutare?): inondiamo il sito del MIUR di adeguate risposte a questa provocatoria domanda.
Salvare l’Università pubblica, assegnando ad essa un ruolo che sarebbe centrale nella definizione di un nuovo e alternativo modello di società, è dunque una necessità e un’urgenza. Per far questo bisogna avere il coraggio di tornare indietro rispetto alla strada catastrofica di Berlinguer-Gelmini per imboccare un’altra strada, rifiutando il consueto ricatto dell’accusa di “essere conservatori”. Ebbene sì, lorsignori, noi lo confessiamo: di fronte ai vostri attacchi reazionari noi vogliamo conservare, migliorandola sempre, quel po’ di democrazia che ci siamo conquistati! Ciò è vero per la Costituzione come è vero per il diritto del lavoro e l’art. 18, e così è vero anche per l’Università!
Si tratta allora – come propone l’appello Bevilacqua-D’Orsi – di rimettere in discussione (sulla base dei catastrofici risultati) anche e soprattutto i provvedimenti del tutto “ideologici” (e si tratta di sciocca ideologia capitalistica) che hanno caratterizzato i diktat del 3+2 e le corrispondenti modalità didattiche: la corsa affannosa degli studenti a collezionare insensati CFU, i corsi brevi e affrettati senza alcun legame con la ricerca, la serie degli stages gratuiti in azienda, i contratti di insegnamento gratuiti per i precari, etc.
Come ha detto a conclusione del suo intervento Angelo D’Orsi, alla “rivoluzione conservatrice” (che da Reagan arriva fino a Berlusconi e Monti) noi vogliamo opporre una “restaurazione rivoluzionaria” dell’Università, che noi vogliamo pubblica, di massa e qualificata, al servizio delle esigenza di conoscenza critica dell’umanità.
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